La relazione uomo-donna nel quadro di un’ecologia integrale

Venerdì 25 novembre 2016, l’Università ha ospitato la Conferenza del giornalista e scrittore Fabrice Hadjadj, sul tema La relazione uomo-donna nel quadro di un’ecologia integrale.

Appunti presi durante la Conferenza:

Il Romanticismo e la rivoluzione industriale sono nate nello stesso periodo e hanno dato luogo a fenomeni paralleli. La si può ricondurre all’antitesi Passione vs razionalizzazione. Così l’uomo e la donna trovano pace soltanto nella fuga dalla società. Amore e acqua fresca bastano per la generazione del rapporto uomo donna, simbolo si può individuare nel Tristano e Isotta di Wagner (si ricordi che questa era l’opera idolatrata da Hitler). Visione romantica e industrializzazione sono sempre andati di pari passo. Si può individuiare una opposizione tra L’arca di Noe e il TItanic.

L’amore è un avvenimento, come viene mostrato in 1984 do Orwell, i protagonisti del romanzo quando si amano evadono dal sistema. L’atto sessuale assume un valore di libertà in opposizione alla rigidità del sistema. Se Dio è amore ogni atto di amore è a sua immagine, però se il rapporto fondante fosse soltanto amore e acqua fresca sarebbe necessario qualcosa di esistente: dell’acqua fresca, potabile (vendibile dalle multinazionali).

A partire dal 1967 la contraccezione introduce il liberismo sessuale. Il manage diventa sinonimo di consumo, la generazione cerca dei professionisti e quindi avere figli non ha più lo stesso senso (da quando esistono i professionisti della provetta).

Questo processo viene mostrato in maniera brillante dallo scrittore fine psicologo Houellebecq. La relazione uomo-donna è il risultato di una visione del mondo bene definibile: l’amore fuori dalla riproduzione, l’amore fuori dal dominio economico. Però se l’amore perde la sua dimensione di oìkos, cioè il suo fondamento sulla società e sulla comunità, esso si dissolve. Così la relazione uomo-donna (famiglia) non è più apertura drammatica alla vita, ma semplice evasione dalla società.

Due atteggiamenti fondamentali:

1) Non si può difendere la famiglia senza la sua gravità: senza la società, il lavoro, l’intreccio tecnocratico. Nel 1983 Ivan Illich dimostra come la società industriale può esistere soltanto come unisex. La società ricorda che i beni sono scarsi quindi si deve essere competitivi; e la famiglia si oppone a questa concezione. Società impone di combattere per un fatturato, la famiglia per un avvenire. La relazione uomo-donna deve fondare l’economia.

2) La relazione Uomo-Donna non si può gestire attraverso il tecnologismo (ecologista). Difendere gli alberi porta poi a concentrarsi soltanto su contatore (sulle statistiche) e quindi a tornare al sogno romantico della foresta vergine (lo stesso ideale della rivoluzione industriale). L’uomo è animale razionale, quindi la donna incinta è più umana, più mammifero.

Economia ed ecologia hanno la radice comune in oìkos. Un enologo smetterebbe di essere tale se si preoccupasse soltanto di preparare il business paln e dimenticasse del sapore del vino.

Senofonte nell’economicus afferma che l’economia è la cura delle cose della casa, quello che adesso potremmo definire il management (saper gestire la casa per esempio quando viene in visita il suocero, e questo ogni padre di famiglia lo capisce bene!).

Aristotele afferma che l’economia è anteriore alla politica, essa di basa su due elementi : l’uomo (anthropos) e il possesso (kthesis). Questi due elementi possono far risalire all’esempio di Esiodo.

Secondo Esiodo (ricorda anche Aristotele) per l’uomo sono necessari: una casa, una donna, il bue. L’uomo libero quindi non è quello celibe, ma quello sposato. Segno divino di questa materialità è è il Dio che ci ama facendosi pane.

Il Romanticismo non prepara alla materialità. Virgilio ha guidato Dante attraverso i purgatorio, adesso lo guiderebbe attraverso centri commerciali verso l’orto.

Virgilio (citando cicerone) ricorda che è beato colui che conosce le cause. Conoscere le cause è prima dei contadini che dei metafisici. Il Matrimonio non si può separare dal lavoro. L’agricoltura è la prima disciplina del lavoro, poi la metallurgia. L’agricoltura è maggiore nell’ordine della natura.

Cicerone nel De Officiis ricorda che il contadino era il mestiere più nobile (i salariati era uguali tra loro). Chesterton afferma che l’insuccesso del contadino che produce rape è quello di venderle e non di poterle consumare; e che l’uomo moderno ignora le cause e per questo può essere soggiogato dai demagoghi. Chi ignora le cause delle cose è meno libero. Virgilio sostiene che la cultura della zucca porta al culto degli dei. L’economia infatti è lo scambio e il primo scambio fondamentale è quello tra l’uomo e il territorio. La oìkos è il luogo della famiglia e il luogo del lavoro.

L’amore omosessuale è antifisico e spiritualistico. Serve soltanto al mondo industriale, è l’apoteosi del romanticismo. Il Matrimonio invece si fa carico della natura, non è l’applicazione della natura. La famiglia è un luogo di produzione e non di consumo. Illich afferma che l’unisex è distintivo del nostro tempo. La famiglia è lo zoccolo duro dell’economia integrale (non si tratta della difesa degli Amish). Dobbiamo cogliere il passaggio dalla Rerum Novarum alla laudato Sii. Il bambino nella culla ci invita all’ecologia che non è un’ideologia ma il nostro pane quotidiano.

PERSONA? [R. Spaemann]

QUANDO L’UOMO INIZIA A ESSERE PERSONA?

La parola persona non è un termine sortale servendosi del quale determinati individui possono essere inseriti in una classe naturale di oggetti e identificati come esemplari di questa specie. Per sapere se qualcuno è un qualcuno, cioè una persona, e non invece un qualcosa, ovvero una cosa, dobbiamo averlo già identificato come un essere vivente di una certa specie, per esempio come un uomo. Quello di persona non è però neppure un concetto generico, come per esempio quello di “mammifero”, un concetto sotto il quale possono essere sussunti più concetti specifici. Il termine persona è piuttosto, come scrive Tommaso d’Aquino, un nomen dignitatis. Chiamare qualcuno una persona significa riconoscergli uno status: lo status di un fine in sé. La nozione di fine in sé ci è familiare grazie all’imperativo categorico di Kant: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.1 Non potremmo esistere senza usare continuamente gli uni degli altri come mezzo per i nostri fini. Ma in linea di principio questa strumentalizzazione deve essere reciproca. Non possiamo ridurre le persone allo status di semplici mezzi per i nostri fini. Di qui viene, per esempio, il divieto della schiavitù. La ragione di questo divieto sta nel fatto che l’uomo, in quanto è un essere dotato di ragione e quindi libero, è in grado di proporsi lui stesso dei fini e di rinunciare ai propri fini quando si convinca che è giusto farlo. Per questo però ha il diritto che gli siano fatte subire soltanto quelle conseguenze dell’agire altrui di cui gli può essere data una giustificazione. Le persone in quanto esseri liberi sono soggetti che hanno il diritto di chiedere ad altri una giustificazione dei loro comportamenti. Ho detto che l’idea di persona come fine in sé ci è familiare grazie a Immanuel Kant. In realtà essa è, naturalmente, più antica. Tommaso d’Aquino scrive in modo lapidario: Homo est naturaliter liber et propter seipsum existens.2
Gli esseri liberi si caratterizzano per il fatto di avere un rapporto diverso da quello di altri esseri viventi con la propria essenza, con la propria natura, con la propria determinazione qualitativa. Non sono semplicemente esemplari, elementi rappresentativi della specie alla quale vengono assegnati da un osservatore esterno, ma hanno un rapporto soggettivo con la propria natura, con la propria determinazione qualitativa. Si potrebbe dire che non sono la propria natura, ma hanno la propria natura. Non sono neppure, come riteneva Sartre, pura soggettività priva di essenza che si dà poi un certo modo di essere. Hanno già un modo di essere, ma non si identificano semplicemente con quello. Il loro essere è il possesso di una natura. Per questa ragione la mente umana ha sempre immaginato storie di metamorfosi, come si vede in Ovidio ma pure nelle favole popolari. La cosa interessante di questi racconti è che in essi gli uomini si trasformano in altri esseri rimanendo però se stessi. Come abbiamo detto: a differenza di tutte le altre cose e di tutti gli altri esseri viventi, le persone hanno un rapporto con ciò che sono. Chi sono non s’identifica con ciò che sono. In un celebre saggio, Harry Frankfurt ha attirato l’attenzione sul fatto che gli esseri umani non soltanto desiderano ciò che desiderano, ma possono pure desiderare di avere desideri diversi.3 Può essere questo il caso per esempio di un tossicodipendente. Gli esseri umani possono essere scontenti del proprio aspetto e del proprio carattere. Frankfurt parla di secondary volitions. Le persone possono avere secondary volitions. Per questo le persone possono fare promesse, cioè possono vincolare il proprio volere futuro concedendo ad altri il diritto di pretendere che vorranno una certa cosa. E per questo alle persone si può perdonare. Non si deve chiudere la questione pensando che una persona sia precisamente quel qualcuno che ha agito in un certo modo e che tale resterà per sempre. Possiamo e dobbiamo concedere agli altri la possibilità di allontanare da sé le proprie azioni.
Il nostro concetto di persona, a differenza di quello dell’antichità, è profondamente influenzato dalla teologia cristiana. Nella dottrina trinitaria concepiamo Dio come una natura che ha la caratteristica di essere posseduta in tre modi. E in Cristo concepiamo una persona che possiede due essenze, sebbene in modo tale che questa unica persona è definita dal possesso della natura divina ed è questa persona divina che adotta una seconda natura umana. Dottrina trinitaria e cristologia hanno preparato la comprensione strutturale dell’essenza della personalità.
Se riflettiamo su quanto detto fin qui, potrebbe sembrare che si debba concludere che il riconoscimento degli esseri umani come persone debba dipendere dalla presenza effettiva in essi delle caratteristiche per mezzo delle quali la personalità è definita. Sembrerebbe ragionevole pensare che si possano considerare persone soltanto gli esseri che possiedono una qualche forma di autocoscienza, cioè un rapporto cosciente con sé e con la propria vita. Proposte che vanno in questa direzione sono state in effetti ripetutamente avanzate nei dibattiti degli ultimi decenni. Si è negato cioè che gli embrioni, i bambini, gli handicappati psichici gravi e gli individui colpiti da demenza senile possano essere considerati persone e si è chiesto che la nozione di dignità dell’uomo presente nelle costituzioni degli Stati europei e dell’ONU venga sostituita con la nozione di dignità della persona. Questo modo di pensare non è privo di radici nella tradizione europea. Mentre il grande rivoluzionario Immanuel Kant si oppone senza mezzi termini a questa concezione, essa trova invece un certo sostegno in Tommaso d’Aquino, il quale riteneva che tutti gli uomini tranne Gesù Cristo nelle prime fasi della loro esistenza embrionale abbiano inizialmente un’anima animale, che con un atto creativo Dio sostituisce poi con un’anima umana, ovvero con un’anima personale. Per motivi scientifici, oggi non c’è praticamente più nessuno che sostenga questa idea. È diventata sempre più dominante, invece, la concezione di persona di John Locke. Locke vuole limitare strettamente il proprio ontological commitment ai contenuti dell’esperienza interna ed esterna, escludendo quindi sia i risultati di una trascendenza ontologica sia quelli di una riflessione trascendentale. La personalità per lui non è perciò un modo di essere riconoscibile grazie a determinati stati di coscienza, ma non è altro che uno stato di coscienza di tale genere. È lo stato di una soggettività che si percepisce come identica attraverso il flusso del tempo. Poiché per l’empirismo vi sono soltanto stati di cui abbiamo esperienza interna ed esterna, ma non vi è un sostrato di tali stati, in questa prospettiva non vi sono neppure persone prive di coscienza o persone che dormono. David Hume ha poi fatto un passo ulteriore arrivando a negare del tutto l’esistenza della personalità. Egli ritiene infatti che non vi sia in realtà alcuna esperienza che si estende nel tempo. Esiste il ricordo, ma ogni ricordo si dà come esperienza presente qui e ora. Il ricordo non è la presenza del passato, ma la presenza di un’immagine attuale di ciò che noi adesso riteniamo essere il passato. Per questo il ricordo può anche ingannare. Vi sono quindi sempre soltanto esperienze attuali istantanee, ma non un’identità estesa nel tempo alla quale il pronome â??ioâ?? si riferisca. Sulla linea di Locke si colloca oggi per esempio Derek Parfit con il libro Reasons and Persons. Per Parfit non vi è continuità della persona attraverso il sonno. Chi dorme non è una persona e chi si sveglia non è la stessa persona che si era addormentata qualche tempo prima. Ogni volta che qualcuno si addormenta termina l’esistenza di una persona. Colui che si sveglia eredita da colui che si è addormentato certi contenuti della memoria a causa dell’identità fisiologica dell’organismo umano e del suo cervello. È interessante notare che in questo modo Parfit è in grado di dare una giustificazione di altro tipo ai doveri verso se stessi che altrimenti avevano soltanto una giustificazione di tipo religioso. Il dovere di provvedere alla mia salute in questa prospettiva è un dovere nei confronti di un essere diverso da me, ovvero nei confronti di qualcuno che è in un certo senso un mio discendente. Qui la personalità viene dunque chiaramente distinta dall’umanità. Esistono gli uomini, che sono esseri viventi, e vi sono stati personali di molti di questi uomini, ma non di tutti. L’essere della persona non inizia dunque con la sua esistenza come organismo umano vivente ma soltanto con il progressivo destarsi di certi stati di coscienza. Quanto questa concezione si sia diffusa senza che neppure ce ne si accorgesse, lo si può vedere dal fatto che nientedimeno che il Presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, intervenendo qualche anno fa nella discussione a proposito della cosiddetta morte cerebrale, affermò che poteva darsi che la morte cerebrale non fosse la morte dell’uomo ma che si trattava comunque della morte della persona.
Desidero argomentare contro questa concezione e sostenere la tesi che l’essere persona non è una caratteristica dell’uomo, ma è il suo essere, e perciò non inizia in un momento successivo a quello in cui inizia a esistere una nuova vita umana non identica all’organismo dei genitori.
Le persone non sono una specie naturale che possiamo identificare con una descrizione. Nessuno ci può prescrivere quando dobbiamo e quando non dobbiamo usare la parola persona. Non si tratta qui innanzitutto di una questione teoretica, ma di una questione pratica, di una questione etica. Chiamare qualcuno qualcuno e non qualcosa è un atto di riconoscimento che nessuno può essere costretto a compiere. Tuttavia questa decisione non è arbitraria. L’atto di riconoscimento di qualcuno come qualcuno e non come qualcosa che è connesso con il nostro uso della parola persona ha una sua logica immanente. Una limitazione ingiustificata della cerchia di coloro che ricevono tale riconoscimento cambia la natura di questo atto anche nei confronti di coloro che vengono riconosciuti come persone. E fissare in modo ingiustificato, al principio della vita, un momento nel quale tale riconoscimento abbia inizio porta inevitabilmente a stabilire in modo altrettanto ingiustificato un termine nell’ultimo stadio della vita.
Una persona è qualcuno e non qualcosa. Non c’è un passaggio continuativo da qualcosa a qualcuno. Non sarebbe corretto dire: â??Qualcuno è qualcosa con questa o quella caratteristicaâ??. Qualcuno non è qualcosa. Per questo, per dire che cosa significa la parola qualcuno, dobbiamo esprimerci in modo tautologico: chiamiamo qualcuno qualcuno che ha questa e quella caratteristica. Ma anche questo non è corretto. Noi consideriamo infatti come qualcuno certi esseri e in particolare gli esseri umani anche quando non possiedono di fatto queste caratteristiche. La nostra posizione è forse espressa nel modo migliore da una frase di David Wiggins: â??A person is any animal the physical make-up of whose species constitutes the species’ typical members thinking intelligent beings, with reason and reflection, and typically enables them to consider themselves as themselves, the same thinking things, in different times and placesâ??.4 L’unico punto in questa definizione su cui avrei qualcosa da ridire è l’espressione thinking things. Nessuno di noi chiama cosa un essere pensante. Che la presenza effettiva delle caratteristiche tipiche delle persone non sia la condizione della personalità, lo possiamo capire facilmente riflettendo sull’uso dei pronomi io e tu. Chiunque tra noi dice: â??Io sono nato il tal giornoâ??, o: â??Io sono stato concepito nella tale cittàâ??, sebbene l’essere che nacque o fu concepito in quel momento non fosse in grado di dire io. Il pronome personale io non si riferisce a un io-l’io è un’invenzione dei filosofi â?? ma a un essere vivente che in un qualche momento successivo ha cominciato a dire io. E l’identità di questo essere vivente è indipendente da ciò di cui egli conserva effettivamente un ricordo. Qualcuno può essere ringraziato o rimproverato per azioni che lui stesso ha dimenticato. E naturalmente una madre dice a suo figlio: â??Quando ero incinta di te…â??; oppure: â??Quando ti ho partorito…â??. E non: â??Quando portavo in me un organismo dal quale sei poi venuto tuâ??. Tutti i tentativi di slegare la personalità dalla vitalità, dall’esistenza di un organismo umano sono in contrasto con ciò che consideriamo intuitivamente evidente. Sono inconciliabili con l’uso della lingua da parte di ogni uomo normale.
Questa normalità è peraltro la condizione perché gli esseri umani possano sviluppare le caratteristiche proprie delle persone. Una madre non ha l’impressione di condizionare una cosa con le sue parole fino al momento in cui questo qualcosa comincia a sua volta a parlare. Per questo un bambino non impara a parlare da un computer. Nel rapporto con il neonato la madre regredisce anzi essa stessa a un livello infantile e il rapporto tra lei e il bambino è quello che c’è tra due esseri umani. Dice tu al bambino, lo tratta come una piccola persona ed è soltanto perché il bambino viene trattato già come una persona che diventa ciò che egli era fin da principio e quale fin da principio era stato considerato. Chi divide l’essere persona dell’uomo dal suo essere un organismo vivente recide il vincolo dell’interpersonalità all’interno della quale soltanto le persone diventano ciò che sono. Le persone infatti esistono soltanto al plurale (l’uso della parola persona in riferimento a Dio ha senso soltanto nel contesto della dottrina trinitaria).
Un altro argomento contro l’idea di legare l’essere persona alla presenza effettiva di determinate caratteristiche si basa sull’osservazione che ponendo tale condizione si trasforma l’atto di riconoscimento delle persone in un atto di cooptazione. Si consegnano coloro che arrivano dopo all’arbitrio di coloro che già si riconoscono fra loro. Infatti sono costoro che definiscono le caratteristiche in base alle quali qualcuno viene cooptato nella comunità delle persone. Fino a che punto si tratti qui di una decisione arbitraria, lo vediamo dall’estrema varietà delle opinioni degli scienziati a proposito del momento in cui devono essere riconosciuti i diritti della persona. Secondo alcuni la tutela della vita deve cominciare nel terzo mese di gravidanza, secondo altri deve cominciare al momento della nascita, altri ancora ritengono che si debba aspettare la sesta settimana dopo la nascita, mentre Peter Singer, coerentemente, non concede un diritto alla vita ai bambini al di sotto dei due anni. Se abbandoniamo l’unico criterio dell’appartenenza alla specie Homo sapiens e della discendenza da membri di questa specie, stabilire a quali uomini spettino diritti personali e a quali non spettino diventa una pura questione di potere. La dignità della persona comporta che essa prenda il posto che le compete nella comunità universale delle persone non come qualcuno che di questa diventa membro per cooptazione ma come qualcuno che è tale per nascita.
Ogni uomo appartiene a tale comunità per il fatto di appartenere alla famiglia degli uomini, cioè per il fatto di avere un rapporto di parentela con degli esseri umani. La biologia evoluzionistica, per esempio con i lavori di Ernst Mayr, ha abbandonato l’idea di definire la specie come una classe alla quale gli esemplari appartengono in virtù di una qualche somiglianza, come accade nel caso della classificazione di cose inanimate. Il concetto di classe viene sostituito dal concetto di popolazione. A una popolazione un animale appartiene in forza di una relazione genealogica, cioè in forza dell’origine comune e dell’interazione sessuale. I rapporti di parentela tra esseri umani non sono però mai una mera realtà biologica. Sono sempre al tempo stesso rapporti personali. Padre e madre, figlio e figlia, fratello e sorella, nonno e nonna, cugino e cugina, zio e zia, cognato e cognata sono posti determinati in una struttura interpersonale. E chiunque occupi uno di questi posti lo occupa fin dal principio della sua esistenza biologica e lo conserva per tutto il tempo della sua vita e anzi anche al di là di quello. Vi è qui una differenza rispetto a quasi tutti gli animali. Un embrione è figlio dei suoi genitori fin dal primo momento della sua esistenza. In quanto membro di una famiglia umana egli è però membro di una comunità di persone, ma in quanto membro di una comunità di persone è egli stesso una persona del tutto a prescindere dal darsi o no di certe caratteristiche. Si racconta che Peter Singer assista in modo ammirevole la madre malata di Alzheimer. Quando gli fu chiesto in un’intervista come il suo comportamento nei confronti della madre si potesse conciliare con la sua convinzione che il morbo di Alzheimer cancella la personalità, pare che egli abbia risposto che si trattava per l’appunto di sua madre. Cioè: la madre resta madre e il figlio resta figlio. Questo è però un rapporto personale, del tutto a prescindere dal fatto che entrambe le persone coinvolte ne siano o no consapevoli soggettivamente, e perciò la madre resta una persona finché vive, così come il figlio è figlio dal momento in cui è vivo. Se la parentela biologica non fosse al tempo stesso qualcosa di personale, come si potrebbe spiegare il fatto che i bambini nati al di fuori del matrimonio o adottati, al più tardi durante la pubertà, manifestano il desiderio di conoscere il proprio padre carnale o i propri genitori carnali? Considerano il rapporto con un parente che non conoscono come parte della propria identità personale.
Qualcosa di analogo è vero del resto nel caso del rapporto sessuale tra uomo e donna. Anch’esso non è mai qualcosa di meramente biologico. Quando lo si riduce a questo si tratta di una depravazione. Quello che vi è di intelligente nella perversità del marchese de Sade è il fatto che essa è voluta proprio in quanto depravazione e umiliazione. Allo stesso modo è però anche vero il contrario: la realtà personale nell’uomo ha sempre anche un aspetto biologico. Non per niente la vita eterna viene presentata come cena vitae aeternae, come un mangiare e bere in compagnia. E la verginità della madre di Gesù secondo la fede della Chiesa non è un fatto puramente spirituale, ma la realtà spirituale trova la sua espressione nel fatto che Gesù è stato concepito senza l’intervento di un uomo.
La domanda sull’inizio temporale della personalità umana, in realtà, è una domanda a cui non si può rispondere. La personalità è infatti qualcosa di sovratemporale. Grazie a essa l’uomo è partecipe del mundus intelligibilis. Essa significa che l’uomo è un essere capace di conoscere la verità. Ma la verità è al di sopra del tempo. Che noi oggi siamo riuniti qui a Roma è sempre stato vero e resterà vero in eterno. Poiché la personalità è partecipazione alla sovratemporalità, è vano ogni tentativo di indicare un momento del tempo in cui essa inizi. Come non possiamo constatare l’istante della morte, ma soltanto dire retrospettivamente: â??Adesso quest’uomo non è più in vitaâ??, così, quando abbiamo a che fare con un essere umano, possiamo soltanto dire: â??Questa è una personaâ??. Questo era peraltro anche il modo di vedere di Immanuel Kant, il quale scrive che, â??siccome il prodotto è una persona, ed è impossibile farsi un concetto della produzione di un essere dotato di libertà per mezzo di un’operazione fisica, è un’idea assolutamente giusta e anche necessaria, dal punto di vista pratico, il considerare la procreazione come un atto per mezzo del quale abbiamo messa una persona al mondoâ??.5 Si potrebbe dire che l’identificazione del divenire persona con il momento della generazione consegue dall’impossibilità di fissare in un qualunque modo un inizio della persona nel tempo. Chiunque proponga di identificarla con un momento successivo in definitiva pretende di sapere di più di quello che può sapere.
Questo vale anche per San Tommaso d’Aquino, il quale accettava questa identificazione soltanto nel caso di Gesù Cristo. Per tutti gli altri uomini egli riteneva che l’anima razionale e perciò personale venisse creata immediatamente da Dio soltanto nel quarantesimo giorno dal concepimento, sostituendosi all’anima sensitiva (animale) che era stata presente fino a quel momento. Dietro questa ipotesi sta il thyrathen di Aristotele, cioè la dottrina aristotelica secondo cui l’intelletto non viene generato insieme all’anima quale parte di questa ma entra nell’uomo dal di fuori.6 Questa dottrina poggiava sull’idea che l’intelletto non sia definibile richiamandosi a una funzione biologica ma debba invece essere inteso come partecipazione alla realtà sovratemporale. Contrariamente ad Aristotele, Tommaso sostenne che l’intelletto è parte dell’anima, ma soltanto nel senso che l’anima per lui si definisce in base alla sua intellettualità. E proprio per questo essa non può avere origine per via di riproduzione, ma soltanto grazie a un atto creativo immediato, senza che i genitori fungano da cause seconde. Questa dottrina non è più sostenibile dal momento in cui sappiamo che lo sviluppo dell’uomo, guidato dal suo programma genetico, procede senza alcuna soluzione di continuità e che i caratteri ereditari danno anche all’intellettualità del singolo uomo la forma che le è propria. Con questo diventa però poco plausibile anche la supposizione che la genesi dell’anima personale non sia dovuta in alcun modo alla riproduzione, giacché questa idea sta e cade con la tesi dell’animazione successiva. Se infatti l’anima razionale prende possesso dell’uomo soltanto in un momento successivo, allora i genitori generano come tutti gli organismi viventi un organismo di natura animale. Se però questo stadio animale non si dà, che cosa generano allora i genitori? Un organismo inanimato? Non si potrebbe parlare in questo caso di generazione. Se fin dal principio l’essere umano vive grazie all’animazione da parte di un’anima razionale, non può essere che questa animazione non abbia nulla a che vedere con la procreazione da parte dei genitori. In questo senso, dobbiamo comprendere bene quello che Giovanni Paolo II afferma nell’Enciclica Evangelium Vitae quando dice che la creazione dell’anima umana da parte di Dio è per così dire inscritta nell’atto della generazione umana.7 Non si tratta qui di un’affermazione estemporanea, ma di un invito rivolto all’antropologia teologica a ripensare a fondo il nesso tra l’atto generativo e il thyrathen della creazione dell’anima razionale.
Da ultimo desidero accennare soltanto brevemente alla domanda sull’inizio della vita umana, che dobbiamo identificare con l’inizio della personalità umana. A questa domanda non si può rispondere senza il contributo della scienza biologica. In questa sede sia permesso al filosofo di fare soltanto tre osservazioni.
Non ha senso parlare di vita umana intendendo con ciò qualcosa di diverso dalla vita di esseri umani. Vivere viventibus est esse, scrive Aristotele 8 e con lui San Tommaso. Non esiste una vita umana anonima. Quando inizia la vita embrionale, o abbiamo a che fare con la vita della madre o si tratta della vita di un nuovo essere umano. La scienza è però concorde sul fatto che la vita di una nuova struttura di DNA non è la vita della madre. Quindi tale vita è l’esistenza di un nuovo essere umano diverso dalla madre.
Non ha senso far cominciare la vita â?? e quindi la personalità â?? di questo nuovo essere umano soltanto dal momento in cui si sia raggiunto un certo grado di indipendenza dalla vita della madre, per esempio dal momento dell’annidamento, perché, si dice, soltanto da quel momento in poi è possibile uno sviluppo autonomo. Questo è vero, ma ciò che si sviluppa autonomamente esiste già prima di aver trovato il posto a lui conveniente nel ventre materno. D’altra parte questo essere non si sviluppa autonomamente nemmeno dopo quel momento, ma ha invece bisogno continuamente di ciò che gli viene dall’organismo della madre. Ma di questo ha bisogno anche dopo la nascita. Se autonomia significa indipendenza dall’aiuto altrui, allora il bambino raggiunge tale autonomia soltanto molti anni dopo la nascita. Anzi, un’indipendenza completa non la raggiungiamo mai. L’esistenza umana dipende sempre da un certo grado di solidarietà. Quello che è chiesto a Caino è che egli sappia dov’è suo fratello. â??Sono forse il custode di mio fratello?â??. È la risposta dell’assassino.
Come stanno le cose nel caso dei gemelli monozigotici? Ho detto che la vita umana è sempre la vita di un essere umano. Ma non dovremmo dire che fintanto che nello sviluppo della vita embrionale non sia deciso se si tratta di un essere umano o di due o di tre non si tratta ancora di una vita personale? Non mi sembra che questa risposta sia necessaria. Innanzitutto, anche i gemelli monozigotici come gli altri esseri umani, in seguito, quando saranno arrivati all’uso della ragione, diranno che sono stati concepiti nel tale momento o nelle tali circostanze. Indicheranno come loro la vita umana nascente che era la loro. E se a questo proposito invece di dire io diranno noi, è pure vero che il pronome noi non è meno personale del pronome io. Noi significa sempre una pluralità di persone e non una vita anonima e priva di soggetto. E se noi cristiani intendiamo la personalità come un venire interpellati da parte di Dio, allora questo significa che Dio ha da sempre visto nella vita che aveva così avuto origine le due o tre persone del cui comune inizio qui si tratta.
È pure possibile la concezione dell’embriologo Blechschmidt, il quale ritiene che lo zigote che in seguito si divide sia una persona, dalla quale poi, come Eva dalla costola di Adamo, si stacca una seconda persona. Entriamo qui in un ambito in cui si fanno ipotesi di carattere puramente speculativo. Ed è legittimo farle. Anche l’ipotesi di una divisione successiva di una vita anonima in due persone è di carattere puramente speculativo. Ma è un’ipotesi che si trova in conflitto con certe evidenze ontologiche fondamentali. È sufficiente che vi siano ipotesi alternative che sono compatibili con tali evidenze. Chi in questo ambito voglia prescrivere un’astinenza di stampo radicalmente empiristico, dovrebbe essere coerente. È stato coerente David Hume il quale confessò di non sapere che cosa farsene dell’idea di persona e dichiarò di non essere uno di quegli uomini “che hanno la fortuna di avere un io”.

  1. Kant I., Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, Torino: UTET, 1970: 88.
  2. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 64, a. 2, ad 3.
  3. Frankfurt H., Freedom of the Will and the Concept of a Person, The Journal of Philosophy 1971, 68: 5-20.
  4. Wiggins D., Sameness and Substance, Cambridge: Harvard University Press, 1980: 188.
  5. Kant I., La metafisica dei costumi, Roma-Bari: Laterza, 1989: 99-100.
  6. Aristotele, De generatione animalium, II, 3, 736b 27-28.
  7. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, n. 43.
  8. Aristotele, De anima, II, 4, 415b 13.

Relazione (Donati)

La relazione non è frutto dell’individuo altrimenti si cade nell’individualismo.
Qual’è la relazione che c’è tra due persone. Ogni scambio genera una
relazione. La relazione dà un senso allepersone, agiscono in base al
contesto. La dimensione sociale dà una forma alla persona. Lrelazione
ha una sua realtà. La relazione che nasce nel rapporto (azione
reciproca). La costruzione del noi. Dice una donna: La relazione con
mio marito mi fa capire chi sono (uno specchio). Per vedere la
relazione bisogna adottare un punto di vista terzo.
Collaborazione e cooperazione.
nella coll non è detto vhe il fine sia comune (io aiuto te e vice
versa) le persone sono intercambiabile. Coop. Presuppone che posso
ottenere un bene solo con te (la persona non è intercambiabile) lo
scopo è la relazione tra me e te. Competizione. Nella coop. Non si
ottiene un bene se non si è. Il bambino è un bene relazionale.
Prendersi cura della relazione.
Forma della famiglia: l’Opera come bene relazionale.
ibeni relazionali sono un nuovo mdo di vedere i beni comuni, il
colosseo, il mare. Ci si realizza ponendosi in relazione con gli altri
e con Dio.
Il bene relazionale non è un prodotto aggregativo, ma un fattore
emergente. Non dare mai per scontate le relazioni.

Fedeltà matrimoniale di R.DE SANTIS

Amarsi e rimanere insieme tutta la vita. Un tempo, qualche generazione fa, non solo era possibile, ma era la norma. Oggi, invece, è diventato una rarità, una scelta invidiabile o folle, a seconda dei punti di vista. Zygmunt Bauman sull’argomento è tornato più volte (lo fa anche nel suo ultimo libro Cose che abbiamo in comune, pubblicato da Laterza). I suoi lavori sono ricchi di considerazioni sul modo di vivere le relazioni: oggi siamo esposti a mille tentazioni e rimanere fedeli certo non è più scontato, ma diventa una maniera per sottrarre almeno i sentimenti al dissipamento rapido del consumo. Amore liquido, uscito nel 2003, partiva proprio da qui, dalla nostra lacerazione tra la voglia di provare nuove emozioni e il bisogno di un amore autentico.
Cos’è che ci spinge a cercare sempre nuove storie?
“Il bisogno di amare ed essere amati, in una continua ricerca di appagamento, senza essere mai sicuri di essere stati soddisfatti abbastanza. L’amore liquido è proprio questo: un amore diviso tra il desiderio di emozioni e la paura del legame”.
Dunque siamo condannati a vivere relazioni brevi o all’infedeltà…
“Nessuno è “condannato”. Di fronte a diverse possibilità sta a noi scegliere. Alcune scelte sono più facili e altre più rischiose. Quelle apparentemente meno impegnative sono più semplici rispetto a quelle che richiedono sforzo e sacrificio”.
Eppure lei ha vissuto un amore duraturo, quello con sua moglie Janina, scomparsa due anni fa.
“L’amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l’uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. Mi creda, l’amore ripaga quest’attenzione meravigliosamente. Per quanto mi riguarda (e spero sia stato così anche per Janina) posso dirle: come il vino, il sapore del nostro amore è migliorato negli anni”.
Oggi viviamo più relazioni nell’arco di una vita. Siamo più liberi o solo più impauriti?
“Libertà e sicurezza sono valori entrambi necessari, ma sono in conflitto tra loro. Il prezzo da pagare per una maggiore sicurezza è una minore libertà e il prezzo di una maggiore libertà è una minore sicurezza. La maggior parte delle persone cerca di trovare un equilibrio, quasi sempre invano”.
Lei però è invecchiato insieme a sua moglie: come avete affrontato la noia della quotidianità? Invecchiare insieme è diventato fuori moda?
“È la prospettiva dell’invecchiare ad essere ormai fuori moda, identificata con una diminuzione delle possibilità di scelta e con l’assenza di “novità”. Quella “novità” che in una società di consumatori è stata elevata al più alto grado della gerarchia dei valori e considerata la chiave della felicità. Tendiamo a non tollerare la routine, perché fin dall’infanzia siamo stati abituati a rincorrere oggetti “usa e getta”, da rimpiazzare velocemente. Non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto dello sforzo e di un lavoro scrupoloso”.
Abbiamo finito per trasformare i sentimenti in merci. Come possiamo ridare all’altro la sua unicità?
“Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l’opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. L’amore richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l’altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l’amore. Non troveremo l’amore in un negozio. L’amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana”.
Forse accumuliamo relazioni per evitare i rischi dell’amore, come se la “quantità” ci rendesse immuni dell’esclusività dolorosa dei rapporti.
“È così. Quando ciò che ci circonda diventa incerto, l’illusione di avere tante “seconde scelte”, che ci ricompensino dalla sofferenza della precarietà, è invitante. Muoversi da un luogo all’altro (più promettente perché non ancora sperimentato) sembra più facile e allettante che impegnarsi in un lungo sforzo di riparazione delle imperfezioni della dimora attuale, per trasformarla in una vera e propria casa e non solo in un posto in cui vivere. “L’amore esclusivo” non è quasi mai esente da dolori e problemi – ma la gioia è nello sforzo comune per superarli”.
In un mondo pieno di tentazioni, possiamo resistere? E perché?
“È richiesta una volontà molto forte per resistere. Emmanuel Lévinas ha parlato della “tentazione della tentazione”. È lo stato dell’”essere tentati” ciò che in realtà desideriamo, non l’oggetto che la tentazione promette di consegnarci. Desideriamo quello stato, perché è un’apertura nella routine. Nel momento in cui siamo tentati ci sembra di essere liberi: stiamo già guardando oltre la routine, ma non abbiamo ancora ceduto alla tentazione, non abbiamo ancora raggiunto il punto di non ritorno. Un attimo più tardi, se cediamo, la libertà svanisce e viene sostituita da una nuova routine. La tentazione è un’imboscata nella quale tendiamo a cadere gioiosamente e volontariamente”.
Lei però scrive: “Nessuno può sperimentare due volte lo stesso amore e la stessa morte “. Ci si innamora una sola volta nella vita?
“Non esiste una regola. Il punto è che ogni singolo amore, come ogni morte, è unico. Per questa ragione, nessuno può “imparare ad amare”, come nessuno può “imparare a morire”. Benché molti di noi sognino di farlo e non manca chi provi a insegnarlo a pagamento “.
Nel ’68 si diceva: “Vogliamo tutto e subito”. Il nostro desiderio di appagamento immediato è anche figlio di quella stagione?
“Il 1968 potrebbe essere stato un punto d’inizio, ma la nostra dedizione alla gratificazione istantanea e senza legami è il prodotto del mercato, che ha saputo capitalizzare la nostra attitudine a vivere il presente”.
I “legami umani” in un mondo che consuma tutto sono un intralcio?
“Sono stati sostituiti dalle “connessioni”. Mentre i legami richiedono impegno, “connettere” e “disconnettere” è un gioco da bambini. Su Facebook si possono avere centinaia di amici muovendo un dito. Farsi degli amici offline è più complicato. Ciò che si guadagna in quantità si perde in qualità. Ciò che si guadagna in facilità (scambiata per libertà) si perde in sicurezza”.
Lei e Janina avete mai attraversato una crisi?
“Come potrebbe essere diversamente? Ma fin dall’inizio abbiamo deciso che lo stare insieme, anche se difficile, è incomparabilmente meglio della sua alternativa. Una volta presa questa decisione, si guarda anche alla più terribile crisi coniugale come a una sfida da affrontare. L’esatto contrario della dichiarazione meno rischiosa: “Viviamo insieme e vediamo come va…”. In questo caso, anche un’incomprensione prende la dimensione di una catastrofe seguita dalla tentazione di porre termine alla storia, abbandonare l’oggetto difettoso, cercare soddisfazione da un’altra parte “.
Il vostro è stato un amore a prima vista?
“Sì, le feci una proposta di matrimonio e, nove giorni dopo il nostro primo incontro, lei accettò. Ma c’è voluto molto di più per far durare il nostro amore, e farlo crescere, per 62 anni”.
di R.DE SANTIS

Castità prematrimoniale: perché sì?

Movimento Giovanile Salesiano Triveneto

Castità prematrimoniale: perché sì? da Giovani per i Giovani
La Redazione di Giovani per i Giovani da più parti è stata invitata ad affrontare il tema della castità prematrimoniale, un argomento non semplice ma che spesso emerge nei gruppi formativi e nel colloquio con i giovani. Cominciamo a svolgere la tematica servendoci di un articolo apparso sulla rivista “Il Timone”. Desideriamo intanto aprire il confronto soprattutto attraverso il forum presente su www.donboscoland.it legato all’articolo.
Castità prematrimoniale: perché sì?
La Chiesa si ostina a proporla. Molti giovani non la capiscono. È ancora possibile spiegare le ragioni ed i vantaggi della castità prematrimoniale? Ecco che cosa dire. Anche a chi non crede.
Un giovane e una giovane si conoscono, si frequentano, si vogliono bene. Scoprono di desiderare una vita insieme e, magari, stabiliscono che un giorno diventeranno solennemente e pubblicamente marito e moglie. Un periodo di tempo – più o meno lungo – li separa dal momento in cui, salvo ripensamenti, si uniranno in matrimonio. Come vivere questa particolarissima stagione della vita che è il fidanzamento? Secondo la mentalità corrente, nulla di più normale che quei giovani si comportino come se fossero già sposati.
Nell’insegnamento della Chiesa, invece, soltanto il matrimonio rende lecito il rapporto sessuale tra l’uomo e la donna. Si tratta di un conflitto acutissimo tra il senso comune dei contemporanei e il Magistero petrino; il divieto dei cosiddetti ‘rapporti prematrimoniali’ rischia di risuonare sempre meno ascoltato e compreso, al punto da suscitare perfino nei pastori la tentazione allo scoraggiamento. Non è raro ascoltare il ‘lamento’ di qualche parroco: ‘Dissuadere i fidanzati dai rapporti prematrimoniali? Figuriamoci, inutile perfino parlarne, non ci capiscono’.
Che fare, dunque?
C’è un significato profondamente umano di questo insegnamento che, ininterrottamente e ostinatamente, la Chiesa affida agli uomini di ogni tempo. Bisogna aiutare le persone a riscoprire che non si tratta di un’impuntatura moralistica – ‘devi fare così perché devi, perché te lo dico io’ – né di un sacrificio imposto ai fidanzati per il gusto di mortificarli, né di una prescrizione formalistica. priva di qualsiasi giustificazione razionale.
Come sempre quando la Chiesa insegna una verità morale, la castità al di fuori del matrimonio ha un profondo significato antropologico: è proposta perché ‘fa bene’ all’uomo, rispetta e promuove la sua più intima natura, lo aiuta a comprendere in profondità l’essenza del matrimonio.
Proveremo dunque ad offrire alcuni argomenti ‘umani’ che possano aiutare a riaprire gli occhi sulla bellezza di questa ‘fatica’ richiesta ai fidanzati e a chiunque viva al di fuori del matrimonio. Un piccolo prontuario per ragionare sul fatto che il ‘bene’ insegnato dal ‘Papa e dai preti’ alla fine, conviene. E che il sesso prematrimoniale è, in verità, ‘anti-matrimoniale’.
1. Una prima constatazione di buon senso: il sesso unisce, crea cioè subito tra gli amanti un’unione affettiva, psichica, emotiva, intima e speciale che nessun’altra relazione è in grado di eguagliare. Il sesso produce un legame, poiché il corpo parla un linguaggio che va anche al di là delle intenzioni coscienti del partner. Ora, poiché questo legame nasce più o meno consapevolmente ogni volta, più partner sessuali si hanno più il legame con ognuno si fa più debole. Il sesso prematrimoniale aumenta drammaticamente le chance di divorzio.
2. Saper aspettare irrobustisce il legame coniugale, perché il rapporto sessuale diviene qualcosa che i coniugi hanno condiviso solo l’uno con l’altro, dopo averlo. Un tempo che li ha visti cimentarsi (e cementarsi) in un impegno che implica aiuto reciproco, buona volontà ‘incrociata’, crescita nella stima l’un per l’altro.
3. Il rapporto sessuale prematrimoniale determina un accecante ‘effetto valanga’, poiché è così affettivamente forte da annebbiare la scelta della persona. Il fidanzamento è tempo di verifica della scelta, tant’è vero che si può ancora ripensarci. Ebbene, se il rapporto lascia insoddisfatti, porta a concludere che i due sono ‘incompatibili’, mentre magari il matrimonio potrebbe dimostrare il contrario; se, viceversa, risulta soddisfacente, maschera effettive incompatibilità pronte ad esplodere dopo il matrimonio.
4. Esiste un nesso intrinseco fra il sesso e il rapporto stabile tra uomo e donna. Dunque è innaturale creare, attraverso il rapporto sessuale, un’intimità così forte per poi romperla. Ciò avverrà a prescindere dalle intenzioni delle persone: il significato oggettivo del sesso è intatti più importante – prevale – sul significato soggettivo. Il don Giovanni impenitente può credere soggettivamente che nessun rapporto è per lui realmente importante, ma non può evitare che ciascuno di quei rapporti lasci segni profondi nella struttura più intima della sua persona. C’è un fatto inequivocabile: l’effetto unitivo automatico del sesso.
5. A questo punto, un’obiezione classica consiste nell’ipotizzare che due ragazzi abbiano già deciso di sposarsi, e che solo un lasso temporale ‘organizzativo’ (la casa, il lavoro, gli studi…) li separi dal matrimonio. Perché ‘rifiutarsi’ quegli atti che, compiuti dopo le nozze, la Chiesa considera pienamente legittimi? L’errore del ragionamento sta nella premessa: anche in casi simili, il sesso avverrebbe al di fuori di una decisione di esclusività e permanenza. Soltanto il matrimonio è un punto dì non ritorno che cambia la vita. Soltanto il patto matrimoniale è così forte e inclusivo – come scrive il filosofo Fulvio Di Blasi – da giustificare, cioè rendere giusta di fronte a Dio e agli uomini anche l’unione corporea. La castità prematrimoniale è il percorso propedeutico alla comprensione della vera essenza del matrimonio. Non si può capire l’indissolubilità matrimoniale se si rifiuta ottusamente il valore della continenza prima delle nozze.
6. I fidanzati non hanno ‘il diritto’ a possedersi carnalmente per la semplice ragione che ancora non si appartengono. Il sesso fuori dal matrimonio è quindi una specie di furto. Né vale a dissipare la colpa la tesi del sesso come ‘prova d’amore’. L’amore non si prova. Ci si crede e lo si vive, responsabilmente. Provare una persona è ridurla a oggetto.
7. La convivenza ‘di fatto’ è, in tal senso, l’abbaglio più clamoroso per le coppie moderne: infatti, esse pensano in questo modo di ‘provare’ il matrimonio, mentre la convivenza è tutto fuorché una prova di matrimonio, poiché manca della responsabilità di una vita altrui per tutta la vita, che è tipica solo della promessa matrimoniale. Come scrivono Aduro Cattaneo, Paolo Pugni e Franca Malagò, c’è una bella differenza tra coniuge e compagno: l’uno – da cum e iugum è colui con il quale divido il giogo; l’altro – da cum e panis – colui con il quale divido il pane. Un conto è condividere il pranzo – esperienza aperta ai più svariati incontri – e un conto è mettere in comune la sorte e tutto se stesso. L’amore dei conviventi è tutto tranne che libero; perché un amore libero da impegni è un controsenso. Il motto implicito di ogni convivenza è: ‘fin che dura’.
8. Nonostante queste argomentazioni, resta oggi molto difficile convincere le persone che è meglio sforzarsi di aspettare la prima notte di nozze. Da un lato, gioca in senso contrario la pulsione degli istinti, che la modernità ha pensato di liquidare secondo le parole di Oscar Wilde: ‘L’unico modo di vincere le tentazioni è assecondarle’. Ma c’è poi un motivo più profondo: i fatti della legge morale sono molto più evidenti nel lungo periodo. Può darsi che ad alcune generazioni possa sfuggire una verità morale. Ma di fronte al lungo cammino della storia, la verità si impone: una società non casta è ricca di divorzi e povera di figli.
9. Che cosa dire ai giovani che abbiano fatto esperienza della caduta nel cammino verso il matrimonio? Di solito c’è una tacita convinzione – magari avallata dall’arrendevolezza degli educatori – secondo la quale non è possibile ‘invertire la rotta’ una volta che due fidanzati vivano, sessualmente parlando, more uxorio: ‘oramai…’, quasi che esistessero persone sottratte alla potenza della grazia santificante per colpa di una scelta o di uno stile di vita sbagliato. È dovere di ogni cattolico invece proporre la verità tutta intera anche a questi fratelli, trasmettendo loro la certezza della misericordia e del perdono di Dio, insieme alla robusta convinzione dell’efficacia degli strumenti che la Chiesa mette a disposizione per ‘fare nuova’ la vita di ognuno. Di fronte alla vertigine che oggi un giovane prova nel sentirsi proporre la castità matrimoniale, valgano sempre le parole così umane degli Apostoli di fronte alla ‘intransigenza’ del loro Maestro: ‘Dunque, chi potrà salvarsi?’. E la risposta di Gesù: ‘Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile’ (Mt 19,25-26).
Fonte:
© Il Timone – n. 18 Marzo/Aprile 2002
L’autore: Mario PALMARO
Giornalista pubblicista, è corsivista de Il Giornale e collabora con Avvenire, 7Giorni7, Studi Cattolici. Assistente di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Milano, esperto di problemi di bioetica, ha pubblicato diversi libri tra i quali segnaliamo Ma questo è un uomo (San Paolo); ha scritto, con Alessandro Gnocchi, Don Camillo. Il vangelo dei semplici (Ancora). É membro del direttivo nazionale del Movimento per la Vita italiano.

Bibliografia

·         Ramòn Garcia de Haro, Matrimonio & Famiglia nei documenti del Magistero, Ares, Milano 2000.
·         Fulvio Di Biasi, Rapporti pre-o anti-matrimoniali?, in Studi Cattolici, ottobre 2001, n. 488.
·         Ugo Borghello, Le crisi dell’amore. Prevenire & curare i disagi familiari, Ares, Milano 2000.
·         Arturo Cattaneo, con Franca & Paolo Pugni, Matrimonio d’amore. Tracce per un cammino di coppia, Ares, Milano 1997.
·         Franca Malagò, Paolo Pugni, Etica semplice per la famiglia. Libertà, autorità, amore, Ares, Milano 1994.

Il ruolo umanizzante della sessualità

Il ruolo umanizzante della sessualità (Studi Cattolici 497, 2003, pp. 100-108)
articolo di Cormac Burke

In qualsiasi solida visione antropologica, l’uomo appare come un essere incompleto o non ancora «compiuto».  Ogni individuo deve pertanto cercare di realizzarsi; non però rinchiudendosi nel proprio intimo. Egli non trova infatti in  sé  stesso  i  mezzi  indispensabili  per  la  sua  realizzazione:  non  è  autosufficiente.  Deve  trascendersi,  poiché  si completa  aprendosi  ai  valori  e  aderendo  a  essi.  Questo  necessario  processo  di  apertura  è  contrastato  dal  profondo egocentrismo  che  il  peccato  originale  ha  lasciato  in  ciascuna  persona  e  che,  in  seguito,  è  stato  reso  più  forte dall’individualismo moderno secondo cui ognuno dovrebbe essere (o sentirsi) autosufficiente e contare soltanto su sé stesso.
Alla  luce  di  queste  prospettive  culturali,  la  sessualità  umana –la  divisione  cioè  del  genere  umano  in  due metà,  ciascuna delle  quali è  vista (sebbene non sempre  in modo adeguato) come  completamento dell’altra – appare un fattore di protezione contro l’autosufficienza individualistica nonché un potente stimolo alla crescita umana.

Le due modalità della persona umana
Nel  fatto  che  gli  esseri  umani  esistano  in  due  modalità -maschile  e  femminile -è  possibile  (anzi,  a  mio parere,  si  deve)  trovare  una  chiara  e  originale  conferma  della  tesi  secondo  cui  l’uomo  ha  bisogno  di  altri  per perfezionarsi.  Un’autentica  realizzazione  o  sviluppo  della  persona  umana  non  si  ottiene  senza  una  adeguata interazione sessuale. Nel caso dell’uomo l’istinto sessuale è dovrebbe essere più ampio che la mera attrazione fisico-corporale.  Nemmeno  si  capisce  la  sessualità  umana  se  essa  viene  ridotta  semplicemente  al suo  ovvio  orientamento procreativo. La dimensione distintiva della sessualità umana non si esaurisce infatti (e magari neanche risiede) nella sola procreatività, dove invece la sessualità animale, per contrasto, si dispiega e finisce [1].
La  corporalità  è  evidentemente  un  aspetto  fondamentale  della  sessualità umana.  In  certo  modo,  però,  non soltanto  è  il  suo  aspetto  più  ovvio,  ma  altresì,  per  così  dire,  quello  più  superficiale.  Quando  predomina  una percezione  eminentemente  fisico-corporea  della  sessualità  umana,  vi  è  il  grave  rischio  di  ridurla  alla  dimensione meramente animale. Dal punto di vista antropologico si possono distinguere treaspetti del fenomeno della sessualità umana:
1)  Un  primo  aspetto  che,  in  ordine  alla  comprensione  e  allo  sviluppo  della  vita  personale  di  ciascuno, suggerisce  diverse  caratteristiche  o  modi  di  essere  umani,  che -se  si  è  capaci  di  percepirli -dischiuderanno  la ricchezza e la potenzialità della propria natura umana. E in tal senso, anzitutto, che la sessualità deve sempre essere considerata  e  studiata.  È  così  che  ci  si  presenta  come  fenomeno  antropologico  di  primaria  importanza.  Il  suo dinamismo non va riferito principalmente all’amore tra un uomo e una donna in particolare, ma all’apprezzamento tra uomini e donne in generale [2].
2)  Un  secondo aspetto  che,  su  un  piano  più specifico,  offre  una  forma  singolare  di  comunione  con  un  «tu» concreto,  impegnandosi  in una  relazione  impareggiabile  di  donazione  di  sé  e  di accettazione  dell’altro: la  relazione coniugale,  il  matrimonio.  Siccome,  per  la  stragrande  maggioranza  degli  uomini,  il  matrimonio  costituisce  la relazione umana interpersonale più stretta e intima, il suo ruolo nell’autentico sviluppo non può che essere unico.
3) Un terzo aspetto, conseguenza del secondo, è la formazione natura le di una comunione ancora più larga, la famiglia, nella  quale  la  vita  umana  si  perpetua  e  si  sviluppa,  e  dove  la  vita  individuale  di  ciascuno,  dal  suo  inizio, diviene non soltanto frutto, bensì anche allieva dell’amore. Nella funzione educatrice e umanizzante della famiglia, la sessualità gioca -dovrebbe giocare -un ruolo multiforme di primo ordine. Prima  di  procedere  a  una  considerazione  un  po’  più  dettagliata  di  questi  singoli  aspetti,  sarà  opportuno soffermarsi  brevemente  su  un  fenomeno  che  li  riguarda  tutti  e  tré:  il  movimento  femminista  dei  tempi  moderni.
Iniziato  seriamente  nel  corso  dell’Ottocento,  il  femminismo  (in  realtà  bisognerebbe  parlare  di  «femminismi»)  ha fortemente  segnato  il  secolo  ventesimo  e  tuttora  riveste  molte  forme,  senza  arrivare  a  prenderne  una  definitiva pienamente coerente e consona a un’approfondita visione antropologica.
Da anni i diversi movimenti femministi, con iniziative assolutamente necessarie per correggere i gravi abusi dei  secoli  passati,  hanno posto  l’accento  sull’uguaglianza  in  diritti  e  dignità  dell’uomo  e  della  donna.  Nessuno  può disapprovare  (al  contrario)  le  giuste  richieste  del  femminismo:  l’autentico  riconoscimento,  per  la  donna,  della  pari dignità  con  l’uomo  e  l’uguaglianza  di  opportunità  nella  partecipazione  alla  vita  politica,  professionale,  sociale.  Ma una  gran  parte  dei  movimenti  femministi,  soffermandosi  quasi  unicamente  sui  due  aspetti  dell’uguaglianza  e  della dignità,  ne  ha  tralasciato  e  persino  oscurato  altri  non  meno  fondamentali per  la  comprensione  antropologica:  a)  la complementarità dei sessi, che armonizza la loro uguaglianza e differenza [3]; b) e, più essenziale ancora, l’identità specificamente  sessuale  di  ciascuno;  identità  intesa  pure  come  meta  da  raggiungere  dai  singoli per  «realizzare»  la propria  vita.  Questi due  aspetti sono chiaramente interdipendenti, poiché,  senza  un’identità  sessuale  ben definita  da parte dei mèmbri di ciascun sesso, non è possibile avere una complementarità autentica tra i partner.

La risposta ai valori sessuali
Passiamo a considerare il primo aspetto del fenomeno della sessualità umana. Il tema chiede che si restringa –o, se del caso, si allarghi -l’orizzonte della sessualità, per vedervi il suo ruolo umanizzante. E questo infatti l’aspetto più  universale  e  in  certo  senso  più  importante  della  sessualità,  presentandosi  come  il  fattore  fondamentale  per l’integrale sviluppo umano individuale. Non mi riferisco all’origine meramente biologica di ogni persona dall’unione degli elementi maschili e femminili, ma piuttosto al fatto che l’uomo (e impiego la parola nella sua connotazione di essere  umano  in  quanto  tale,  indipendentente  dal  genere)  non  può  realizzarsi  adeguatamente  senza  avere  chiara coscienza  delle  due  modalità  (o  espressioni)  dell’umanità:  quella  maschile  e  quella  femminile.  L’uomo  e  la  donna devono  inoltre  riconoscere  i  valori  di  carattere  e  di  attitudini  di  ciascun  sesso  e  rispondere/aprirsi  a  tali  valori,  per sviluppare quelli che si considerano più peculiari del proprio sesso, come pure quelli dell’altro.
La condizione sessuale attiene alla persona, non solo al corpo. Per sviluppare pienamente la sua personalità, ognuno  deve  essere  capace  di  assumere  e  integrare  la  propria  condizione  sessuale.  Uno  dei  più  grossi  ostacoli  alla realizzazione di sé è dato dal tentativo di vivere senza riferimento al distintivo carattere sessuale che si possiede (o, peggio ancora, rifiutandolo).
Detto altrimenti, l’uomo (e ciò si applica in modo particolare alla situazione dell’adolescente all’iniziare il suo processo  di  maturazione  psichica)  si  trova  con  due  immagini  di  umanità  parimenti  valide.  Ne  la  sola  modalità maschile,  ne  la  sola  modalità  femminile  offrono  un  modello  compiuto  di  umanità.  Ne  segue  che  il  carattere autenticamente  umano  di  una  società  o civiltà  è  necessariamente  congiunto alla  presenza  in  essa  di  autentici  valori maschili e  femminili, in fruttuoso  interscambio tra  di loro. L’armonia  fra i sessi non è  assolutamente  da restringere all’area della vita sessuale, ma risulta un’autentica necessità per la comunicazione e la comprensione tra le due metà dell’umanità, e si tratta perciò di una questione nella quale è in gioco l’armonia della famiglia, delle istituzioni e della società tutta  [4]. Questa  armonia  tra  uomo e  donna,  messa oggi così in pericolo, può venire  ristabilita  non soltanto attraverso il riconoscimento dell’uguaglianza  di diritti (derivante  non dalla condizione  sessuale, bensì dalla comune condizione  di  essere  persona  e  cittadino),  ma  soprattutto  dal  riconoscimento  della  loro  diversità  e  interdipendente complementarità. Gli uomini hanno bisogno di divenire più umani, cioè più ricchi in umanità, mediante la presenza delle donne, e viceversa.
La  società  per  esistere  e  conservarsi  dipende dal  senso  di  mutuo  aiuto  e  della  complementarità  di funzioni. Più importante della complementarità tra magistrati, avvocati e forze dell’ordine, per esempio, è tuttavia il senso della complementarità fra uomo e donna. Se manca questo senso, la società può divenire tecnicamente più sviluppata, ma si avvierà a un processo di declino umano e magari di disintegrazione.
Per svilupparsi, bisogna imparare a entrare in rapporto con gli altri, scoprendo l’originalità tipica di ciascuno e rispettando le legittime differenze. La differenza sessuale segnala un aspetto primordiale della realtà umana, dove il modo -i molteplici modi -di relazionarsi tendono a configurare profondamente la vita di ciascuno. Oggigiorno una concezione  impoverita  (e  al  tempo  stessodistorta)  della  sessualità  ha  come  conseguenza  che  lo  sviluppo  sessuale degli individui è seriamente limitato e addirittura deturpato. La società contemporanea è infatti contrassegnata da una sconcertante  ignoranza  del  carattere  originale  e  umanamente  arricchente  che  dovrebbe  distinguere  le  differenti modalità di relazione tra i sessi: dalla relazione considerata nella sua forma più generale –quella semplicemente tra uomo  e  donna –fino  a  tutte  le  relazioni  particolari,  di  ragazzo  e  ragazza,  fratello  e  sorella,  madre  e  figlio, padre  e figlia,  fidanzato  e  fidanzata,  con  speciale  riguardo  a  quella  tra  coniugi.  Quando  si  comprendono  adeguatamente  le diverse forme di queste relazioni e si cerca di viverle nella loro specificità, esse diventano un possente aiuto perché ognuno  cresca  in  umanità.  All’inverso,  pochi  fenomeni  possono  presentare  una  più  grave  minaccia,  tanto  allo sviluppo  dei  singoli  quanto  all’armonia  sociale,  come  una  sessualità  intesa  solo  in  termini  di  differenze  fisiche;  o, peggio ancora,  di una vicendevole  opposizione o rivalità (considerata persino come una  «lotta» per il potere) fra le due parti dell’umanità.

Concezione tradizionale dei caratteri maschile & femminile
Qualunque  sia  il  modo  di  descrivere  la  tipizzazione  maschile  o  femminile  della  persona  umana,  esso provocherà  probabilmente  l’immediata  reazione  critica  che  ogni  generalizzazione  tende  a  suscitare.  Il  carattere maschile  è  «alacre,  attivo»,  diversamente  da  quello  femminile,  «passivo»;  l’uomo  si  dedica  agli  affari  pubblici, mentre la donna a quelli domestici; la razionalità del maschio confligge con il sentimento o l’intuizione della donna, così come la giustizia viene in contrasto con la pietà [5].
Una  siffatta  analisi  oggi  si  accetta  sempre  meno.  Sembra  infatti  porgere  meri  «stereotipi»,  raffigurazioni troppo rigide, che assegnano modi di essere e virtù esclusivamente all’uno o all’altro sesso; come se i valori o le virtù da sviluppare e assimilare, per conseguire un’umanità personale pienamente compiuta, fossero essenzialmente diversi nel caso  dell’uomo e  della donna.  Lo sviluppo di ciascuna persona  sarà  invece  integrale  soltanto se  essa acquisisce tutti  i  valori  e  tutte  le  virtù  umani.  Chi  sperimenta -come  avviene -una  qualità  vissuta  particolarmente  da  un membro  dell’altro  sesso,  deve  ritenere  che  egli  pure  ha  bisogno  di  vivere  tale  virtù,  sebbene  in  maniera  più corrispondente  al  proprio  sesso.  Si  capisce  così  come  appunto,  per  esempio,  la  donna  possa  e  debba  essere coraggiosa, e l’uomo sensibile e delicato.
È bene  partire  dal principio-base  che tutte le virtù umane devono essere assimilate  da  ogni uomo e  da  ogni donna.  Ciò  che  il  fenomeno  della  sessualità  rivela  in  questo  àmbito  è  che  esistono  modalità  maschili  e  modalità femminili di vivere ogni virtù (o la sua mancanza), e ciascun sesso deve imparare secondo queste differenti modalità dall’altro.  Si  ritorna  alla  considerazione  che  sia  la  donna  sia  l’uomo  «rappresentano»  l’umanità,  ma  ognuno  a  suo modo, necessariamente parziale.
Nel mondo della psicologia già guadagna notevole terreno una scuola che, muovendo dall’uguale dignità tra uomo  e  donna,  propone  modelli  distinti  per  lo  sviluppo  dell’identità  sessuale  di  ognuno.  Si  sottolinea  infatti  che  i parametri  finora  generalmente  in  uso fra  i  psicologi  per  misurare  e  accertare  il  grado  di  «maturità»  umana  hanno corrisposto pressoché esclusivamente a un modello di sviluppo maschile. Il risultato è stato la tendenza, fin in epoca moderna,  a  definire  l’«uomo»  per  le  caratteristiche  umane  (e non  anzitutto  mascoline)  e  la  «donna»  per  le caratteristiche femminili (e non anche umane). Di conseguenza si da un’idea incompleta non soltanto della donna, ma pure  dell’uomo  [6].  Gli  esponenti  di  questa  scuola  notano  che,  se  si  applicano  i  parametri  maschili,  i  risultali «dimostrano» logicamente una «inferiorità» della donna, alla luce di quasi tutti i valori reputati «chiave» per una vita «riuscita».
La corrente psicologica richiamata sostiene invece che la «maturità umana» è da misurarsi differentemente, a seconda  che  si  tratti  di  donna  o  uomo;  che  la  maturità  femminile  è  parimenti  valida  e  importante,  ai  fini  dello sviluppo individuale  e  sociale,  che  quella  maschile; e che tutti i «valori» e  «virtù» che la  persona di un sesso deve cercare  di incarnare  in  quanto  peculiari  del  suo  sesso,  sono  valori  e  virtù  da  assimilare -magari  con  diversa modulazione -anche  da  parte  della  persona  del  sesso  opposto.  «È  necessario  rilevare  che  la  mascolinità  e  la femminilità non si distinguono tanto per una distribuzione di qualità o virtù, bensì per il modo specifico che l’una e l’altra posseggono di incarnarle.  Infatti le  virtù sono umane, e  ogni persona  è tenuta a  svilupparle  tutte.  Non risulta perciò affatto chiaro che vi siano lavori propri dell’uomo e della donna» [7].
L’espressione  «uguaglianza  sessuale»  può  essere  equivoca.  Sarebbe  preferibile  «uguaglianza  personale».
Comunque, «uguaglianza di dignità e di opportunità tra uomini e donne», sebbene lunga come frase, garantisce una precisione  maggiore.  L’uomo  e  la  donna  non  sono  «uguali»  nella  loro  natura  sessuale;  bensì  nettamente  differenti.

Non  sono  «uguali»,  ma  complementari.  Nemmeno  è  esatto  parlare  di  «uguaglianza  personale».  Le  persone  sono uguali nella dignità; ma non esistono due persone «uguali» (cioè, identiche); ogni persona è unica.
Sembra invero corretto dire che c’è un modo maschile di sviluppare le caratteristiche e le virtù femminili e, viceversa, un modo femminile di incarnare le virtù maschili. Le modalità o sfumature di questo particolare processo sono  indubbiamente  così  ricche  e  diverse  da  sfuggire  a  ogni  classificazione.  I  modi  in  cui  un  uomo  esprime  la tenerezza  (virtù  femminile  e  non  maschile?),  o  in  cui  la  donna  si  mostra  coraggiosa,  di  certo  non  smetteranno  di manifestare  l’identità  sessuale  dell’uno  o  dell’altra.  Non  si  ravvisa  nessuna  ragione  per  sostenere  che  una  donna  sia necessariamente meno femminile, perché ha sviluppato un forte senso di competitività (si pensi alle diverse reazioni tante  volte  visibili nei  gesti  di  un  uomo  o  di  una  donna  al  momento  di  vincere  una  medaglia  d’oro  nei  giochi olimpici).
L’uomo  non  può  svilupparsi  adeguatamente,  diventare  cioè  pienamente  umano,  in  un  contesto  di  valori meramente  maschili  o  meramente  femminili  (una  società  stessa  può  essere  troppo  mascolinizzata  o  troppo effeminata).  Soltanto  chi  conosce  i  valori  in  ambedue  le  modalità  sessuali  che  solitamente  presentano,  e  cerca  di praticarli,  segue  un  integrale  cammino  umano  nella  formazione  del  carattere.  La  personalità  umana  si  esprime  di necessità  tramite  la  femminilità  e  la  mascolinità.  Sia  l’uomo  sia  la  donna  rappresentano  la  propria  umanità diversificata e diversificante, con la conseguenza che non è davvero ragionevole cercare di stabilire la prevalenza di un sesso rispetto all’altro.
Non ha pertanto senso discutere quale dei due sessi sia «superiore». In ogni caso, sarà «superiore» la persona che cerca di sviluppare entro di sé le virtù più peculiari del proprio sesso (vincendo inoltre, se ne è capace, i difetti che  possono  considerarsi  propri  del  sesso  stesso),  e  nel  contempo  cerca  di  capire  e  sviluppare -forse,  ripeto,  con tonalità  umana  leggermente  diversa -le  virtù  «tipiche»  dell’altro  sesso.  Si  può  infatti  dire  che,  per  diventare  più compiutamente  umano,  ciascun  sesso  deve  imparare  «umanità»  dall’altro  [8].  Tuttavia,  ogni  eventuale  superiorità dipenderà dal raggiungimento effettivo della propria identità sessuale. Di sicuro potrebbe giustificarsi un’espressione come:  «Lei  è  più  donna  di  quanto  lui  sia  uomo…»;  e  il  senso  sarebbe  che  la  donna  si  è  dimostrata  superiore  nel definire  la  propria  identità  sessuale.  In  passato,  forse più  che  al  presente,  il  senso  dell’identità  sessuale  annoverava addirittura l’idea del «peccato contro il proprio sesso»; cedere alla codardìa  nel caso dell’uomo, per esempio, o, nel caso della donna, alla immodestia o all’infedeltà.
Le  donne  inclinano  agli  estremi:  sono  migliori  o  peggiori  degli  uomini,  osservava  de  La  Bruyère  nel descrivere  i  caratteri.  Giudizio  difficile  da  valutare.  Comunque,  c’era  tradizionalmente  (e  forse  vi  è  tuttora) l’impressione  che  la  donna  operi  a  un  livello  più  alto  di  bontà  (o  a  un  grado  più  elevato  di  moralità).  Nemmeno  è facile  valutare  la  ragione  che  ne  fornisce  Julián  Marías:  la  donna  ha  bisogno  di  essere  contenta  di  sé,  di  sentirsi abbastanza  bene  quando  si  trova  con  sé  stessa  [9].  Da  tali  presupposti  ne  potrebbe  parimenti  seguire  che  la  donna immorale, più che l’uomo immorale, è minacciata dal disprezzo di sé.

L’identità sessuale dell’uomo
II ritratto psicologico dell’uomo si presenta probabilmente più semplice di quello della donna. Fisicamente è più forte; tende a concepire la propria «realizzazione» in termini di lotta, superandosi e superando gli altri. È pertanto più  propenso  alla  competizione  e,  forse,  agli  affari  pubblici.  Con  facilità  eccede  nell’attività  fisica,  ed  è  persino attratto   dalla   violenza   e   dalla   crudeltà.   Possiede   uno   speciale   impulso   verso   l’indipendenza;   l’idea   di «autosufficienza»  è  probabilmente  per  lui  la  maggiore  tentazione.  Nondimeno,  rimane  incompiuto.  Gli  occorre  un completamento, in particolare  un’influenza  che lo umanizzi. La scoperta  autentica della  donna  può rappresentare la condizione per diventare più umano.
Julián Marías afferma che il nucleo della condizione maschile è precisamente l’entusiasmo per la donna (cfr. op. cit., p. 318). Il libro della Genesi ci riferisce l’iniziale reazione gioiosa di Adamo quando vide Èva per la prima volta. Era l’originaria risposta umana alla sessualità: risposta non di desiderio, bensì di entusiasmo sessuale; risposta di chi ha trovato nella vita una nuova dimensione che riempie un’assenza ormai avvertita. La reazione più profonda davanti alla sessualità deve essere infatti di gioia per una realtà che si presenta come fattore complementare e dunque realizzante e arricchente. Certamente ambedue i sessi sono chiamati a capire tutto ciò, nonché a sforzarsi di creare e mantenere  le  condizioni  che  facilitano  una  siffatta  reazione,  che  pare prodursi  sempre  meno  nell’odierna  società.  E poiché probabilmente è l’uomo ad avere maggiore necessità di capire, è la donna a possedere il ruolo più decisivo per creare le condizioni che rendono più facile la giusta reazione umana.
Fra  altri  principali  aspetti  occorre  qui  prendere  speciale  nota  di  come  l’istinto  a  rispettare  e  proteggere  la donna,  così  come  la  speciale  ammirazione  per  la  verginità  e  la  maternità,  siano  fondamentali  per  lo  sviluppo dell’autentico  carattere  maschile.  L’uomo  moderno  non  è  affatto  diverso  in ordine  a  queste  necessità;  il problema  è semmai  che  egli  può  non  essere  cosciente  di  quanto  profonde  siano  le  sue  necessità  in  questo  campo.  Il  problema diventa ancora più grave dal momento che l’ambiente sociale e culturale non lo aiuta a capire le proprie necessità o la sua  inconsapevolezza.  Questione  tutta  a  parte  sarebbe  quella  di  valutare  se  le  donne  si  rendono  sufficientemente conto  del  ruolo  che  compete  loro  in  materia.  Fred  Uhlman,  nel  suo  breve  e  magistrale  romanzo L’amico  ritrovato, rileva  la  maniera  «ingenua»  in  cui,  negli  anni  Trenta,  due  ragazzi  sedicenni  si  scambiano  idee  sulle  ragazze: «Parlavamo anche delle ragazze. Rispetto all’atteggiamento disincantato dei giovani d’oggi, il nostro comportamento era  incredibilmente  ingenuo.  Le  ragazze  erano  per  noi  esseri  superiori  di  straordinaria  purezza,  a  cui  bisognava accostarsi come, in passato, avevano fatto i trovatori, con ardore cavalieresco e adorazione distante». Gli adolescenti di  oggi,  semmai  hanno  conosciuto  altro punto  di  riferimento,  stenteranno  a  rendersi  conto  di  ciò  che  perdono  a motivo dell’odierna disillusione verso l’altro sesso.
Si parla oggi poco di formazione «per essere uomo» (continua a essere necessario parlarne); e ancora meno penso   di   formazione   «per   essere   donna».   L’educazione   cosiddetta   sessuale   si   è   ridotta   a   una   istruzione esclusivamente  fisico-biologica.  Tale  educazione,  in  prospettiva  veramente  umana,  lungi  dal  meritare  di  essere chiamata «educazione sessuale», riveste la forma di una «deformazione» nella comprensione umana della sessualità; e finisce per produrre persone «de-sessualizzate».
Si  nasce  maschio  o  femmina.  Uno  è  donna  o  uomo  per  nascita.  Che  significa  allora  «imparare  a  essere», «imparare a divenire», donna o uomo? Come può una ragazza diventare una donna? Che modello o ideale dovrebbe seguire:  quello  di  divenire  «più  simile  all’uomo»,  come  Henry  Higgins  avrebbe  auspicato?  [10]  Forse  George Bernard  Shaw,  almeno  nell’adattamento  di  Alan  Jay  Lerner,  presentava  la visione  maschile  di  un  femminismo erroneo, così come egli se lo raffigurò. Sono molto più interessanti e significativi certi recenti tentativi, specialmente quelli provenienti da donne altamente qualificate, per identificare gli errori e proporre un femminismo più saldo.

L’identità sessuale della donna
Gli ultimi due  decenni hanno  visto emergere  un nuovo femminismo. Muovendo  da  presupposti non solo di pari dignità e opportunità per i sessi, bensì di loro complementarità, questo femminismo enfatizza l’indole distintiva della donna e i tratti del carattere che la differenziano rispetto all’uomo. Di conseguenza esso sostiene che la donna possiede  la  propria  maniera  di  raggiungere  la  maturità  personale  e  la  realizzazione  umana.  Questa  tesi  si  trova in netto  contrasto  con  le  correnti  femministe  finora  dominanti,  le  quali  ritenevano  piuttosto  che  l’«uguaglianza»  è meglio presentata quando si insiste sulle somiglianze tra i sessi.
Secondo  tale  analisi  «complementare»,  la  donna  è  caratterizzata  da  una  speciale  attitudine  o  capacità  di «occuparsi  degli  altri».  I  teorici  del  femminismo  finora  dominante  scorgono  in  questa  analisi  una  presunta subordinazione della donna ad altri (soprattutto all’uomo), ciò che non risulta loro accettabile. Essi inoltre, se talvolta cercano di connettere i principali due modelli umani di «autonomia» e «relazione», non sembrano nutrire dubbi che per loro l’«autonomia» personale è il fattore più importante [11].
Se  è  vero  che  «svilupparsi»  o  «realizzarsi» nella  modalità  maschile  significa  stabilire  l’indipendenza  del proprio  «io»  dagli  altri,  mentre  nella  sua  modalità  femminile  l’«io»  si  sviluppa  in  base  alla  relazione  con  gli  altri, allora è necessario che le donne, nel valutare e creare la propria identità, utilizzino parametri a loro peculiari [12]. Un altro psicologo sostiene  che  l’identità  maschile si forgia in rapporto al mondo, laddove  quella femminile  si desta  in relazione d’intimità con un’altra persona [13]. Se così è, allora la «maturità umana», da applicare a ciascun sesso (e nonostante  molti  fattori  in  comune),  va  verosimilmente  giudicata  secondo  norme  definitive  distinte  sebbene ugualmente  valide.  Le  principali  questioni  dell’identificazione  ed  educazione  sessuali  dovrebbero  forse  muovere dall’idea che una donna matura e un uomo maturo si relazionano con il mondo in maniera diversa [14]. L’uomo suole considerarsi superiore (dal suo punto di vista); e ciò nondimeno la donna intelligente è sempre rimasta convinta della sua  superiorità  dalla  prospettiva  propria  e  negli  àmbiti umani  che  ricadono  naturalmente  sotto  il  suo  dominio.  Alla fine  di My  Fair  Lady,Henry  Higgins,  a  dispetto  di  sé  stesso  e  nonostante  la  sua  autosufficienza,  ha  imparato  ad amare Eliza e a sentirne la mancanza. Quando Eliza ritorna, Higgins nasconde la sua gioia con un borbottio: «Eliza, dove diavolo sono le mie pantofole?». E lei, che ne era innamorata, ma anche risentita per l’apparente mancanza di apprezzamento  da  parte  di  Higgins,  ora  capisce;  si  rende  conto  che  anche  lui  ama.  Ed  Eliza  accetta  una  relazione, dove Higgins «spadroneggierà» ancora, ma in resa continua perché ha bisogno di lei. Adesso Eliza si sa necessaria, e dunque  amata.  Ognuno si è  arreso,  e  ognuno  ha  vinto.  La  «guerra  dei sessi»,  nelle  piccole  o  grandi  manifestazioni che riveste nella vita coniugale (dove del pari accade), può essere risolta solo quando la vittoria è intesa in termini di resa, e la resa si vede come vittoria.
Quando si cerca di approfondire  la  questione dell’identità sessuale, tralasciare completamente i diversi ruoli procreativi dell’uomo e della donna non sarebbe meno assurdo che limitare il problema a questa concreta differenza di ruoli. Comunque, anche se la cooperazione dell’uomo e della donna è essenziale per la venuta al mondo di nuovi esseri  umani,  è  chiaro  che  la  donna  detiene  un  ruolo  assollutamente  primario.  È  questo  un  fatto  innegabile,  che ognuno può successivamente  considerare  un ingiusto handicap o disturbo, un semplice dovere o missione, o anche un privilegio singolare  [15]. Se ci si pone  entro quest’ultima  prospettiva,  il principio primo del ruolo e  dell’identità femminile  potrebbe  enunciarsi  nel  modo  seguente:  ciò  che  è  proprio  della  donna  è  «dare  vita  all’umanità  e  dare umanità alla vita» [16].

Femminilità & unisessismo
Al tempo  stesso  la  «femminilità»,  considerata come  valore  che  attrae l’uomo,  poco  o  nulla  ha  a  che  vedere (almeno  nella  sua  prima  e  più  ampia  espressione)  con  la  potenziale  maternità.  In  quanto  valore,  dovrebbe  essere manifestata  e  apprezzata  meno  nelle  sue  manifestazioni  fisiche  che  in  quelle  spirituali  e  di  carattere.  Bisogna ammettere che la generazione attuale ha perso la comprensione naturale di questa verità. Mezzo secolo fa, la «grazia femminile»  era  una  nozione  densa  di  significato per  uomini  e  donne,  nonché  un  attributo  che  ragazze  e  donne  si sforzavano  di  sviluppare  e  perfezionare.  C’era  senza  dubbio  una  buona  dose  di  convenzionalità  in  tutto  questo; nondimeno,  vi  si  poteva  cogliere  anche  molto  di  veramente  umano.  Si  può  oggi  dire che  «la  grazia  femminile» rappresenti  un  concetto  che  molte  donne  realmente  non  capiscono.  Quanto  agli  uomini,  benché  forse  non  pensino coscientemente  a  quel  concetto,  essi  rimangono  fortemente  colpiti  e  attratti  dalla  realtà  della  grazia  femminile quando l’incontrano. La leggiadria di Audrey Hepburn, negli anni Cinquanta (per esempio, in opposizione a Marilyn Monroe), potrebbe essere al riguardo un’efficace conferma.
La grazia femminile ha certamente qualcosa a che vedere con il comportamento, in quanto la condotta esterna richiama  le  qualità  interiori.  Essa,  però,  non  va  principalmente  identificata  (nemmeno  alla  lontana)  con  la  mera bellezza fisica. È davvero una forma di sex appeal, quantunque non nel senso in cui l’espressione è oggi solitamente usata e intesa. Il secolo ventesimo premia le attrattive fisiche e penalizza la ragazza non dotata sotto questo aspetto. Peggio  ancora;  l’etica  sociale  dominante  la  sottopone  a  una  forte  pressione  perché  sia sexy, il  che  essa  può  forse riuscire a fare , ma che esercita sugli uomini un’attrazione totalmente diversa da quella prodotta dalla femminilità. Il secolo  XIX  fu  un  tempo  in  cui  le  donne  erano  certo  meno  socialmente  «libere»  di  oggi.  E  tuttavia  la  letteratura dell’epoca  riflette  spesso  situazioni  nelle  quali  una  donna,  scialba  ma  femminile,  esercita  un  potere  di  attrazione superiore  a  un’altra,  bella  ma  priva  di  femminilità.  Jane  Eyre (anche  nella  sua  versione  filmata)  può  servire  di esempio.
È probabile che la donna incapace di acquisire un’autentica grazia femminile (attingibile da tutte) soffra nella sua identità sessuale una limitazione più grande dell’uomo debole e senza vigore.
La   gentilezza,   la   tenerezza,   il   tatto,   la   modestia…   sono   enumerate   fra   le   qualità   che   un   uomo -consapevolmente  o  no -cerca  nella  donna.  Se  si sposa  e  non  le  trova  nella  moglie,  sopraggiunge  la  disillusione; il matrimonio  può  cominciare  a  naufragare.  Qualcosa  di  analogo  è  possibile  dire  per  la  donna  che  non  rinviene  nel marito  un  certo  vigore,  capacità  di  affrontare  le  difficoltà  sia  professionali  che  familiari  con  ottimismo,  spirito  di iniziativa, e via elencando.
Se  il  modo  di  concepire  il  sesso  si  incentra  sulle  relazioni  fisiche,  la  capacità  che  la  sessualità  possiede  di essere  fonte  di  felicità  diminuisce  enormemente.  Anche  a  prescindere  da  ogni  aspetto  morale,  la  sessualità  viene impoverita  e  impoverisce  se  è  ridotta  al  mero  senso  tattile  o  inglobata  nell’appetito  fisico.  Rende  ricchi,  invece,  se diviene una scuola nella quale si impara ad apprezzare le qualità complementari. L’uomo può rallegrarsi di continuo nel  femminile,  la  donna  nel  maschile  (cfr  J.  Marías,  op.  cit.,  p.  326).  La  donna  che  pone  in  risalto  unicamente  gli aspetti fisici del proprio sesso, desta con facilità ciò che di più negativo è nell’uomo. È quando la donna acquista una vera femminilità, e la dimostra, che lo ispira. Indubbiamente è vero anche il contrario: non però con pari intensità. Si comprende  allora  perché  la  donna  possieda  un  potere  cosi  umanizzante  e salvifico;  o,  anche,  il  potere  del  tutto contrario.
Per forza fisica, l’uomo è superiore. Le qualità che, a compenso, la donna possiede non rientrano nel campo fisico, bensì nel suo potere umanizzante. L’uomo ha più muscoli, la donna più cuore. Se essa si dedica a competere con  l’uomo  nello  sviluppo  del  corpo, sarà  certo inferiore.  Nel  pensiero  tradizionale  si  riteneva  che la  donna  avesse una capacità maggiore dell’uomo per la dedizione agli altri e la rinuncia di sé, ciò che costituiva uno degli aspetti più attraenti e autorevoli del carattere femminile: «Quella amabilità della donna radicata di solito nell’abnegazione» [17]. Per chi ha una visione individualistica dell’esistenza, «abnegazione» richiama «alienazione», come sembra avvenire con la maggior parte dei teorici femministi radicali (e infatti il modello che essi propongono alle donne non è leso da tale «difetto»). L’abnegazione, nel suo senso personalistico (dono di sé; dimenticanza del proprio «io»), è una virtù e una prova di maturità.
Per la donna specialmente risulta difficile superare la convinzione interiore che l’«autoaffermazione» è tante volte  nient’altro  che  egoismo,  in  opposizione  al  dono  di  sé,  così  necessario  per  la  realizzazione  dell’identità femminile. Non è facile che una donna trovi la propria identità per via del l’autoaffermazione [18].
La  mascolinizzazione  delle  donne  è  sovente  il  risultato  di  un  femminismo  mal  orientato.  Incapaci  di riconoscere i veri e specifici valori femminili, numerose donne si impegnano a imitare gli uomini, al punto di trovare poca difficoltà ad assimilarne i difetti [19]. «Quando le donne, entrando nella vita professionale, adottano i “difetti” maschili, divengono dure e violente (invece di forti), indipendenti e sradicate (anziché socievoli e vincolate ai valori personali), tecnicistiche (invece di pratiche e volte al concreto)» [20].
Il  femminismo  radicale  afferma  che  le  donne,  lungo  quasi  tutta  la  storia,  hanno  dovuto  soffrire  per  il trattamento  pessimo  e  irriguardoso.  Non  si  può  negare  che  spesso  è  stato  così;  in  tanti  Paesi  capita  ancora.  Ma bisogna  anche  chiedersi  come  mai  i  dottrinari  del  femminismo  non  riescono  ad  apprezzare  le  ragioni  del  perché, nella  storia  delle  civiltà,  tante  donne  sono  state  oggetto di  un  rispetto  profondo  e  di  un’ammirazione  senza  limiti. Come mai è diventato ripugnante almeno per loro l’ideale di essere una «buona madre» o una «buona sorella»? Tutto il  contenuto  positivo,  come  pure  tutta  la  lotta  che  lo  sviluppo  di  quei  ruoli  femminili  comporta,  sono  tralasciati  o sepolti  sotto  un  assoluto  silenzio.  E  lo  stesso  va  detto  della  gratitudine  indicibile  di  tanti  uomini  che  venerano  la presenza o la memoria delle loro madri o sorelle.
L’unisessismo, con la  spinta  a restringere le diversità  tra i due  sessi, tende  a  ridurre  l’attrazione esistente per natura  tra  di  loro  alla  dimensione  esclusivamente  corporale.  Ciò  costituisce  un  impoverimento.  La  cosiddetta «educazione  sessuale»,  quale  viene  oggi  propinata  in  diversi  Paesi,  è  una mistificazione.  Non  si  tratta  affatto  di educazione  sessuale,  ma  piuttosto  di  educazione  alla  «desessualità».  Essa  educa  i  giovani  non  a  crescere  come uomini  e  donne  maturi,  bensì  a  diventare  cittadini unisex:una  grave  perdita.  A  motivo  della  peculiare  ricchezza dell’indole  femminile,  la  mancata  comprensione  e  il  mancato  sviluppo  delle  caratteristiche  specifiche  dei  due  sessi determinano una limitazione evolutiva, probabilmente più per la donna che per l’uomo.
Un  effetto  pressoché  inevitabile  dell’educazione unisexconsiste  nella  spersonalizzazione  del  corpo.  Esso diventa qualcosa di estraneo alla persona, qualcosa che è possibile usare per il piacere, come si potrebbe fare uso di una  chitarra,  un  cibo  o  una  bevanda.  Allora  ogni  sorta  di  gratificazione  sessuale  diviene  logica,  avvincente  e irrilevante. Nell’attività  sessuale  non  si  usa  o  non  si  abusa  di  sé,  ma  ci  si  gratifica  servendosi  di  qualcosa  che  è estrinseco al proprio «io». La storia ha ripetutamente testimoniato gli effetti distruttivi di un tale dualismo.

Il dominio della moda
La  moda  è  tendenzialmente  un  potente  fattore  che  può  favorire  od  ostacolare  l’acquisizione  di  una  vera identità  sessuale.  Essa  fa  sentire  il  proprio impatto  a  livello  più  delle  apparenze  che  della  realtà,  e  là  dove  esercita troppa influenza può esaperare le componenti esteriori o corporali che ben poco hanno a che vedere con la genuina identità sessuale. Una salutare indipendenza dalla moda, oltre che a rivelare una maggiore maturità di carattere, rende più facile a una persona la consapevolezza di che cosa significhi essere una vera donna o un vero uomo.
La moda di misurarsi in duello può essere servita a costringere uomini deboli a divenire coraggiosi, benché il coraggio  dei  duellanti  fosse quasi  sempre  più  apparente  che  reale,  essendo  spesso  frutto  del timore  di  essere considerati codardi; cosa che rivela un carattere immaturo e dipendente, i cui parametri di condotta personale sono improntati  a  ciò  che  gli  altri  possano  pensare.  La roulette  russa rappresenta  la  massima  espressione  di  questa immaturità  psicologica.  Dietro  l’assoluta  spregiudicatezza  esibita,  si  cela  il  timore  adolescenziale  dell’opinione  dei propri  simili;  opinione  che  una  persona  di  medio  criterio  psicologico  trascurerebbe come  priva  di  valore.  Molti psicologi  ritengono  che  la  sottomissione  alla  moda  abbia  influenza  specialmente  forte  sulle  donne,  nel  costruire  o minarne la crescita nell’identità sessuale. E un fatto che se la donna ha scarsa indipendenza di carattere e insufficiente intuito dell’orientamento sessuale degli uomini, la forza della moda può portarla a scelte che favoriscono ben poco il proprio sviluppo.
Poche  donne  sono  «padrone»  della  moda;  la  maggior  parte  tende  a  seguirla.  Ogni  piccola  variante  che  si apporta è diretta a intensificare il dominio della moda piuttosto che ad allontanarsene. Il desiderio di essere più alla moda   è   perciò   di   frequente   accompagnato   dal   timore   di   scostarsene   troppo.   Peraltro   è   proprio   la   donna manifestamente «diversa» a richiamare spesso gli uomini, tanto più se quella diversità è espressione di una maggiore femminilità.  «Le  donne  non  possono  essere  attraenti  se  fanno  tutto  quello  che  fanno  gli  uomini  […].  Questi  non desiderano  forse  che  le  donne  siano  diverse  da  loro? Solitamente,  sì»  [21].  Quando  nel  mondo  della  moda l’esposizione  del  corpo  (minigonne,  bikini)  si  afferma  come  norma,  la  sua  disapprovazione  in  nome  della  moralità può suonare ai più come fuori luogo. Al di là di ogni considerazione morale, lo studioso di antropologia può anche sospettare che le ragazze e le donne che si assoggettano prontamente a quel tipo di moda mostrino scarsa conoscenza delle  diverse  maniere  in  cui  possono  provocare  l’interesse  sessuale  da  parte  degli  uomini,  e  forse  dovrebbero domandarsi se vogliono realmente essere oggetto di quel tipo di interesse che esse cercano di suscitare.
Da qualche decennio la moda della donna in pantaloni si è diffusa quasi dappertutto nel mondo occidentale. Anche  se  nessuno  si  sognerebbe  di  dire che  tale  moda  attesti  scarso  senso  morale  nella  donna,  essa  tuttavia  rivela mancanza  di  sensibilità  verso  l’importanza  dell’identità  sessuale,  congiunta  a  scarso  discernimento  psicologico dell’apprezzamento maschile e a una passiva sottomissione alla pressione delle amiche.
Poniamo il caso che, a un ricevimento con persone d’ambo i sessi, una donna in gonna costati che tutte le altre donne  indossano  pantaloni.  La  percezione  immediata  la  indurrà  a  sentirsi  impacciata  nei  confronti  delle  donne presenti,  a  motivo  del  suo  «non  essere  alla  moda»?  O  sarà  abbastanza  furba  da  rendersi  conto  di  essere  quasi certamente  l’unica  di  tutto  il  gruppo  ad  apparire  come  la  più  femminile  agli  occhi  degli  uomini?  Ma  non  tutte  le donne dotate di discernimento psicologico, tale da cogliere la situazione, possono essere abbastanza indipendenti da agire  di  conseguenza;  e  allora  il  naturale  desiderio  di  essere  interessanti  e  attraenti  per  l’altro  sesso  conduce  a sottomettersi alla moda delle proprie simili.

Complementarità & integrazione
A meno che non ci si sforzi di vedere gli aspetti relazionali e psicologici del sesso intrinsecamente congiunti alla  sua  natura  bio-fisica,  la  comprensione  della  sessualità  umana  sarà  necessariamente  inadeguata.  L’identità sessuale  deve  considerarsi  un  dato  di  fatto  (e  perciò  da  accettare),  prima  di  essere  proposta  anche  come  meta  da conquistare. Poche reazioni sono più alienanti e autodistruttive che quella di contestare gli aspetti oggettivi e i dati di fatto della propria natura umana.
È tra i compiti di ogni sesso «nutrire» l’altro nella propria identità sessuale, aiutando così la persona maschile e  femminile a  sviluppare una  più piena  maturità.  Oggi, però, vi è  mancanza di mascolinità in grado di arricchire le donne, risvegliandone la femminilità e facilitando così la loro maturazione umana. E si registra altresì mancanza di femminilità  per  ispirare  gli  uomini,  spingendoli  allo  sviluppo  della  propria  umanità  maschile.  Il  mondo  attuale conosce un vuoto, non un eccesso, di autentica sessualità; il pericolo è che la nostra diventi una generazione affetta da «malnutrizione sessuale» e, in tal maniera, essa resti umanamente sottosviluppata. La società stessa, l’insieme cioè degli individui che la costituiscono, si rivelerà più o meno umana nella misura in cui sia in essa presente e operativa una  integrazione  di  valori  femminili  e  maschili.  È  per  questa  ragione  che  è  così  preoccupante  la  perdita contemporanea della identità sessuale.
«Si tende oggi a riconoscere che l’ideale della donna è quello di portare le caratteristiche femminili a pienezza in lei stessa e  nella società, accrescendo  così l’armonia  con  l’uomo e  con  le  peculiarità  maschili che sembrano aver foggiato la cultura moderna troppo incisivamente. Si tratta di rispettare la differenza tra i due tipi di caratteristiche, ricercandone la complementarità e non l’opposizione o l’incompatibilità» [22].
«A  entrambi  i  sessi  è  affidato  il  medesimo  compito:  la  famiglia  e  la  gestione  del  mondo.  Secondo  questa visione, non ci sono mansioni esclusivamente riservate agli uomini o alle donne. Detto altrimenti, la sfera privata e quella pubblica competono agli uni e alle altre. È comunque un dato storico che la donna è stata consegnata alla sfera privata e l’uomo si è appropriato in modo esclusivo della costruzione del mondo, dedicando appena un po’ di tempo alla  famiglia.  Ciò  suppone  uno  squilibrio  che  va  superato.  In  sintesi,  si  potrebbe  dire  che  la  cultura  ha  bisogno  di trovare una madre e la famiglia un padre» [23]. Sono osservazioni interessanti. Occorre infatti che tanto gli uomini quanto le donne siano attivi nella sfera privata come in quella pubblica. Comunque, se è vero (si tratta sempre di una generalizzazione) che la tendenza naturale della donna è piuttosto volta alla persona mentre quella dell’uomo è volta all’agire, risulla essenziale che la maggiore presenza delle donne nella vita pubblica abbia particolarmente l’effetto di contrastare la spersonalizzazione di tanti aspetti della vita contemporanea, ponendovi rimedio. Per fare ciò, occorre magari che non poche donne riscoprano (e, se necessario, abbiano il coraggio di seguire) la naturale loro inclinazione a professioni che si occupano più direttamente delle persone.
Chi non vede il singolare valore tanto della femminilità quanto della mascolinità non capirà l’esigenza di una vera formazione sessuale, che aiuti ciascuno a raggiungere una personale identità umana modellata diversamente, a seconda che si sia uomo o donna. L’inclinazione a scorgere opposizione, anziché complementarità, tra i sessi porta a un  femminismo  e  a  un  maschilismo  fuorvianti,  ossessionati  dalla  «lotta  per  il  potere»  cui  si  tende  a  ridurre  ogni aspetto delle relazioni tra i sessi. La moderna società occidentale testimonia, a dir poco, una crescente divisione e una mancanza  di  reciproca  fiducia  e  rispetto  tra  i  sessi,  il  che  rappresenta  un  inquietante  fatto  culturale;  che  tale situazione si sviluppi fra le due parti dell’umanità è fenomeno della massima gravita.
Una «panoramica» condotta sulla sessualità odierna potrebbe giungere alla conclusione che, come prima, vi sono tantissimi corpi maschili e femminili, con la realtà della reciproca loro attrazione fisica; al tempo stesso, però, rileverebbe  che  vi sono  sempre  meno persone maschili  e  femminili  capaci  di  esercitare  un’attrazione  (e  una ispirazione) sessuale veramente umana e umanizzante.


[1]  Negli  animali,  il  sesso  ha  una  funzione  esclusivamente  riproduttiva;  negli  uomini  invece,  oltre  la  funzione riproduttiva; esso riveste anche una funzione perfettiva.
[2]  L’apprezzamento  sessuale  è  tipicamente  umano.  È  inoltre  necessario  se  il  desiderio  sessuale  che  condividiamo con gli animali, non deve rimanere semplicemente animale, ma divenire anche autenticamente umano. In assenza di un  vero  apprezzamento  sessuale,  vi  sarà  scarsa  capacità  di  umanizzare  il  desiderio.  Desiderio  sessuale  senza apprezzamento è il risultato crescente non solo della pornografia, ma altresì delle «avventure» sessuali-biologiche e della perdita di identità sessuale.
[3]  “Le  due  premesse  della  complementarietà  sessuale:  uguaglianza  e  differenziazione”  P.  Allen: Integral  sex complementarity. in “Communio”, 1990, p. 531.
[4]  R.  Yepes:  Fundamentos Fundamentos  de  Antropologia:  un ideal  de  la excelencia humana,  Pamplona,  1996,  p. 271.
[5] Certi dati sono incontestabili: a) quasi sempre l’uomo è fisicamente più forte che la donna; b) soltanto la donna può concepire e partorire.Sono comparabili questi due fatti?Chi pensa così, e al tempo stesso apprezza la forza più che la maternità, quasi inevitabilmente giungerà alla conclusione che l’uomo è superiore.
[6]  Carol  Gilligan: In  a  Different  Voice,  Harvard  University  Press,  1982  passim;  cfr.  Blanca  Castilla: La Complementariedad Varón-Mujer, Madrid, 1993, pp. 42-43.
[7] B. Castilla, op. cit., 78.
[8]  Una  psicologa  sostiene  che  la  “salute  mentale  ottimale  viene  riflessa  nell’androginia  psicologica,  cioè  nella coesistenza  delle  caratteristiche  maschili  e  femminili,  da  esprimersi  in  situazioni  adeguate  (per  esempio,  tenerezza coi bambini e competitività con l’avversario nel tennis)…”: American Journal of Psychiatry, vol. 147 (1990), 910.
[9] Cfr J. Marías, La felicità umana, Ed. Paoline, Milano 1990, p. 333.
[10] My Fair Lady, Atto 2, Scena 4.[11] cf. S. Berlin-C.G. Johnson: “Women and Autonomy”: Psychiatry: vol 52 (1989) pp. 79-94.
[12] cf. C. Gilligan: op. cit., pp. 24-39.
[13] Erik H. Erikson, Identity: Youth and Crisis, New York, 1968, citato in Gilligan, p. 13.
[14] cfr. Gilligan, op. cit. pp. 167-168, dove cita un altro psicologo, David McClelland. “McClelland sostiene mentre per gli uomini il vigore nell’agire rivela un impronta di determinatezza o di aggressività, le donne invece considerano l’attenzione verso gli altri atti di valore.In quanto lo studio di McClelland tratta particolarmente delle caratteristiche della maturità, questo autore afferam che le donne mature e gli uomini maturi si relazionano al mondo con un stile diverso”.
[15] «Sembra che il nostro mondo moderno abbia perso di vista un aspetto primario della sessualità: se nulla rende un uomo tanto rispettoso di una donna quanto la maternità è perché la maternità sottrae la donna alla categoria di un oggetto  da  possedere,  situandola  in  quella  della  realtà  da  venerare.  La  sessualità,  separata  dal  riferimento  alla paternità,  viene  defraudata  della  sua  dimensione  misteriosa  e  sacrale,  il  che  attiene  con  particolare  vigore  alla maternità.  In  nessun  altro  aspetto  appare  il  mistero  e  la  gloria  di  esser  donna  quanto  nella  sua  capacità di  essere madre.  Pochi  uomini  non  sono  commossi  da  questo  mistero.  Oggi  invece  non  sembrano  molte  le  donne  che  se  ne gloriano»: C. Burke: La Felicità Coniugale, Milano, 2004, p. 24.
[16] P. Urbano, Josemaría Escrivá, romano, Leonardo, Milano, 1996, p. 64.
[17] A. Trollope, Il Primo Ministro: cap. 5.
[18] Cfr C. Gilligan, op. cit. p. 87.
[19] Vi è chi ritiene che andiamo verso una società dominata dai (peggiori) difetti maschili.
[20] B. Castilla, op. cit., p. 48. Più avanti la stessa scrittrice rileverà che il processo di “imparare il peggio dall’altro” possa  essere  bi-dimensionale.  Afferma  infatti  che,  in  conseguenza  dell’assenza  di  un  adeguato  senso  di  identità sessuale  e  dell’impegno  per  ricuperarlo  “siamo  testimoni  dell’espandersi  di  una  figura  di  società  decadente  dove ciascun sesso, anziché imparare dalle qualità dell’altro, lo imita nei suoi difetti” (p. 52).
[21] Willa Cather: A Lost Lady.

Rapporti prematrimoniali o rapporti anti-matrimoniali?

Rapporti prematrimoniali o rapporti anti-matrimoniali?

Articolo di Fulvio Di Blasi*

C’è qualcosa di male nel sesso prima del matrimonio? In realtà, posta così, la domanda è già fuorviante perché sembra contenere un implicito riferimento a rapporti che siano comunque ordinati al matrimonio mentre nella vita reale, si sa (e senza bisogno di statistiche specialistiche), non c’è in genere alcun collegamento tra il sesso prematrimoniale e il matrimonio. Bisognerebbe quindi più propriamente parlare di rapporti sessuali non adulterini al di fuori del matrimonio, o di sesso occasionale, sesso facile, sesso libero, ecc. L’espressione rapporti prematrimoniali, giocando su un concetto (matrimonio) che gode nel senso comune di una connotazione morale fortemente positiva, rischia di colorare acriticamente con la stessa connotazione proprio quei rapporti non matrimoniali la cui liceità, precisamente in ragione di quel non, viene tradizionalmente contestata. Chi voglia porsi spassionatamente la questione morale del sesso prematrimoniale dovrebbe subito liberarsi dell’ambiguità di tale espressione. Forse il termine classico “fornicazione” servirebbe meglio allo scopo.

In alcuni corsi di etica che ho tenuto all’Università di Notre Dame, negli Stati Uniti, al di là del necessario studio dei testi classici della filosofia, ho fatto lavorare gli studenti su alcuni dei temi morali oggi più dibattuti: omosessualità, matrimonio e famiglia, eutanasia, aborto, contraccezione, pena di morte, ecc. Ogni studente, nel corso del semestre, ha dovuto fare una ricerca, scrivere un articolo di almeno dieci pagine e (dopo le opportune correzioni) presentarlo in classe in dibattito con gli altri studenti che avevano lavorato sullo stesso tema. L’esperienza è stata ottima. Una filosofia morale coi piedi per terra, e studiata con l’intento sincero di essere (più) buoni, ha fatto apprezzare perfino a studenti allergici alla filosofia i difficili testi aristotelici sulla scienza pratica. Pre-marital sex è stato uno degli argomenti su cui abbiamo lavorato e discusso insieme. E a dispetto delle polemiche sterili e dei parzialismi ideologici ho potuto, infine, assistere a studenti “favorevoli” che hanno simpaticamente ed egregiamente spiegato gli argomenti contro e a studenti “non favorevoli” che hanno spiegato e riconosciuto le difficoltà di quegli stessi argomenti. Il mio obiettivo principale, in tutto questo, è stato non tanto approfondire e migliorare la mia risposta personale ma cercare di capire gli studenti, identificando e interpretando gli aspetti che, dal loro punto di vista, risultavano più rilevanti o problematici.

1. Livello morale

Intanto, ci siamo trovati tutti d’accordo a mantenere la questione al livello morale. Che significa? Significa che risposte come “Lo faccio perché mi piace!” o “Non vedo perché dovrebbe essere un problema morale!” diventano automaticamente prive di senso in quanto evitano la domanda cui sono invece chiamate a rispondere. In tutte le azioni e scelte umane la questione morale -la questione di coscienza– non riguarda ciò che piace ma ciò che, piaccia o no, o piaccia più o meno, è giusto e/o buono fare. Perfino la debolezza non è una risposta logicamente accettabile ma tutt’al più qualcosa da vincere o perdonare in ragione del bene morale. Solo chi sia pronto a sacrificare il proprio piacere sta sul serio affrontando una questione morale. Chi non è disposto non dà una risposta differente allo stesso problema sta semplicemente cercando di evitarlo. Per Aristotele, chi non sia in grado di innalzarsi al di sopra delle passioni e controllare piaceri e dolori non sarà mai in grado di capire l’etica.

La risposta morale è una risposta di principio (“È bene/non è bene avere sesso fuori del matrimonio!”); e va argomentata, perché la coscienza si nutre di argomenti convincenti. Sincerità, rispetto e dialogo sono tutti preliminari su cui, con gli studenti, ci siamo trovati facilmente d’accordo. La persona etica è sincera, con se stessa e con gli altri, sulle vere ragioni del suo agire, e cerca di conformarsi ai buoni argomenti. Per ciò stesso, è sempre pronta a dare e ascoltare ragioni; ed è sempre rispettosa delle risposte etiche altrui, in quanto ammira l’atteggiamento morale sincero prima e più delle proprie stesse opinioni. L’arrabbiato, il risentito, il polemico, il sofista, l’ingannatore… non sono eticamente capaci. È questo il primo insegnamento di Aristotele sulla scienza pratica: disposizione morale sincera e apertura al dialogo argomentativo.

La questione morale, poi, non la inventa nessuno: anche su ciò non c’è stata contesa. L’uomo è un animale morale perché spontaneamente s’interroga sulla bontà delle sue azioni, e non solo sull’utile o sul piacere che ne deriva. Dio, la famiglia, la vita nostra e degli altri, la sessualità, la proprietà… non sono moralmente indifferenti. Nessuno può scegliere di essere o no eticamente reattivo a loro riguardo, può solo scegliere come reagire. Che il sesso sia un problema morale è un dato di fatto cui, nel breve o nel lungo periodo, non si può sfuggire. Gli esseri umani non sono responsabili per questa domanda: “È bene o male avere sesso prima del matrimonio?” Ognuno, però, è responsabile della propria risposta.

2. Il sesso unisce

E andiamo al dato che ha maggiormente attratto l’attenzione degli studenti: “Il sesso unisce!” Sembra banale. Ma intendiamoci: non si tratta qui di una riflessione astratta sul significato unitivo della copula e sulla conformazione biologica e complementare degli organi sessuali maschile e femminile. Niente affatto! Ciò che ha profondamente incuriosito gli studenti è che qualunque rapporto sessuale (volontario) crea subito un’unione psichica, affettiva ed emotiva così intima e speciale che nessun’altra relazione è in grado di eguagliare. È lo stesso fatto che aveva sorpreso Tomasi di Lampedusa, facendogli scrivere, all’incontro di Angelica col suo ex amante sul tragitto di villa Falconeri, che lui, il Senatore, «con lei aveva avuto una breve relazione galante trent’anni prima, e conservava quella insostituibile intimità conferita da poche ora passate fra il medesimo paio di lenzuola».[1]

Come per magia, il fatto del sesso segna profondamente l’affettività, l’intimità e le strutture morali della persona, creando un contesto di significato intessuto di aspettative comportamentali, di risposte, e di ragioni per lodare, biasimare e rivendicare. I partner di un rapporto sessuale diventano subito complici a tanti altri livelli, nel bene e nel male (perfino in un crimine). Con buona pace dei filosofi analitici, il “devi” (“venire”, “aiutarmi”, “fare questo” o “quello”) vive già nell’essere del sesso senza bisogno di alcuna deduzione.

Uno degli studenti, Lina, ha riportato in classe con grande interesse la recente scoperta dell’oxytocin: un ormone che pare venga emesso dalla donna solo durante l’allattamento e i rapporti sessuali. L’effetto di tale ormone sarebbe di creare nella donna «un forte attaccamento emotivo vuoi verso il bambino vuoi verso il partner».[2] Oxytocin o no, un forte attaccamento si forma subito anche nell’uomo; e una delle conclusione di Lina è stata che, poiché un legame nasce inevitabilmente “ogni volta”, «più partner sessuali si hanno più il legame con ognuno si fa più debole»: «il sesso prematrimoniale», perciò, «aumenta in seguito drammaticamente le chance di divorzio».[3] Le opinioni degli studenti su ciò sono state più o meno convergenti. Così, ad esempio, si è espressa Anna: «Aspettare irrobustisce il legame coniugale, poiché il rapporto sessuale diviene qualcosa che i coniugi hanno condiviso solo l’uno con l’altro».[4]

Non è strano che dove il sesso si fa routine e prodotto commerciale, come nell’industria televisiva e cinematografica, il divorzio diviene la regola e la fedeltà coniugale la (rarissima) eccezione. È come se il sesso funzionasse automaticamente in modo da favorire la decisione (morale) di essere fedeli in un rapporto coniugale esclusivo, e il sesso occasionale danneggiasse, sempre automaticamente, la capacità morale di fedeltà. A dispetto di ogni dualismo post-cartesiano, il corpo sembra parlare un suo linguaggio di cui, qualunque siano le intenzioni dei partner, incide indisturbato i caratteri nello spirito.

Aaron ha parlato di una sorta di accecante “effetto valanga” da cui ha dedotto l’inutilità dei rapporti prematrimoniali come test di compatibilità della coppia. L’esperienza sessuale, ha argomentato, è affettivamente così forte da annebbiare la scelta della persona con cui condividere l’esistenza. Se per qualsiasi ragione il rapporto lascia insoddisfatti conduce facilmente «a premature ipotesi di incompatibilità di cui il matrimonio invece potrebbe presto disfarsi». In tal caso, la potenza unitiva del sesso accelera, in direzione opposta, una crisi di rigetto. Se, al contrario, risulta soddisfacente, rischia di «creare false speranze, o mascherare serie incompatibilità relazionali che potrebbero poi far naufragare l’unione coniugale». «Il sesso», continua Aaron, «è come una palla di neve che rotola giù da una collina; è facile spingerla giù, ma, una volta che cominci a rotolare, diventa piuttosto difficile bloccarla, e anche più duro spingerla indietro da dove è venuta».[5] Anche Lina non ha avuto dubbi (e nessuno in classe l’ha contestata): «Il buon sesso è una facile scusa per giustificare i difetti di qualcuno. In più, il legame creatosi rende più arduo lasciarsi anche qualora ci si renda conto che non si è fatti l’uno per l’altra». Perfino “in vista del matrimonio” il sesso prematrimoniale sembra funzionare più nella direzione del divorzio che della fedeltà coniugale.

3. Il caso ideale

La piega del discorso ha condotto spontaneamente gli studenti a tratteggiare un nesso intrinseco tra il sesso e il rapporto stabile tra uomo e donna che chiamiamo matrimonio. Li ha portati a vedere il sesso “non esclusivo” come qualcosa di chiaramente innaturale. Già, perché contro la natura di atti che, da parte loro, lavorano automaticamente in direzione di un rapporto esclusivo e permanente. È innaturale creare un’intimità così forte per poi romperla; ed è ancora più innaturale se, così facendo, si diminuisce la capacità di intimità dei futuri rapporti.

Che succede, però, se la coppia ha già deciso di sposarsi e sta solo aspettando il momento più conveniente per la cerimonia? In tal caso, il sesso avverrebbe in un contesto maturo di stabilità ed esclusività; e, per lo stesso ragionamento di prima, funzionerebbe anche bene per rafforzare la decisione ormai presa. Questo, se ricordo bene, è stato il commento di Trevor. Ci abbiamo pensato e ne abbiamo discusso. In effetti, il caso ideale non funziona; e non funziona in quanto si basa su un insidioso errore logico.

Esso presenta il sesso prematrimoniale come se avvenisse nel contesto di una decisione di permanenza ed esclusività… che è esattamente il contesto del matrimonio a partire dal momento del “Si! Lo voglio!” Questo momento non è, per nessuno, una mera cerimonia. Anche fidanzati con anni di sesso prematrimoniale vi arriveranno molto emozionati, forse piangendo, e magari dopo qualche notte in bianco e una lunga festa di addio al celibato.[6] Il motivo è semplice: il matrimonio è il punto di “non ritorno”, che cambia la vita. Tutti lo sanno. E tutti lo rispettano e lo celebrano come tale. Il patto matrimoniale è così forte e inclusivo da giustificare (= rendere giusta) di fronte sia a Dio sia agli uomini anche l’unione corporea.[7] È anche per questo che, “subito dopo”, si chiama spesso “il bacio”, perché il consenso appena contratto rende lecita quell’unione… e il bacio (e non più del bacio) è ciò che di essa agli invitati sarà dato scherzosamente di assistere.

Nessuna coppia passa per tali emozioni al decidere di avere sesso prima del matrimonio.[8] Ed è ovvio! perché non è una decisione matrimoniale; non è una decisione seria di stabilità e permanenza. E se la si volesse far passare per tale, magari per convincersi della liceità di quel sesso, si creerebbe un vero e proprio inganno (o autoinganno) morale. Sarebbe come dire “Facciamo sesso perché da ora decidiamo di condividere pienamente e per sempre le nostre vite”, ma dicendolo in un tempo morale dedicato a pensarci su con calma e maturità ed, eventualmente, a ripensarci: fino a un attimo prima, se necessario. Per le stesse vittime dell’autoinganno il matrimonio rimarrà comunque il punto di non ritorno: il punto che nel dubbio non bisogna oltrepassare. Nonostante l’apparenza di impegno definitivo, il sesso prematrimoniale resta un sesso fatto a rischio di non prendere mai quell’impegno; a rischio cioè di essere solo occasionale e di danneggiare la futura capacità di fedeltà coniugale: c’è indubbiamente un che di egoismo e di miopia in ciò. «Il sesso prematrimoniale», ha concluso Andrew, «è difettoso [flawed] perché fatto senza un impegno di fedeltà; di conseguenza non è l’amore di due persone che hanno unito insieme le loro vite, non importa quanto forti possano essere i loro sentimenti. L’amore di una coppia che pratica sesso prematrimoniale può essere solo condizionale e parziale».[9]

4. Innaturale?

Ho avuto questa discussione più dettagliata sul caso ideale con più di uno studente nei giorni successivi alla discussione dei papers in classe. Devo dire che, a tuttora, non mi ha convinto del tutto. Non nel senso che non mi pare un argomento sufficiente contro il sesso prematrimoniale. Credo anzi lo sia; e più che sufficiente. Che col sesso non si può scherzare, e precisamente in quanto agisce potentemente e inesorabilmente sulla personalità morale di chi lo fa, è un dato di fatto che dovrebbe mettere chiunque sull’allerta. No! Il punto è che parlare di questo dato di fatto non mi è mai apparsa la soluzione ultima alla questione.

Ho ricominciato a riflettere sulla risposta di fondo degli studenti. Sul senso di quell’innaturale che si sono infine un po’ tutti ritrovati sulle labbra. Che intendevano, magari irriflessivamente (ma realmente), con innaturale?

Credo che tale parola rivela anzitutto la loro intuizione profonda che la natura ha un senso, un significato oggettivo che vi è inscritto, e che è indipendente dalle scelte umane (dal puramente convenzionale). Un significato che noi riusciamo piano piano a penetrare. Non è forse questa anche la prima grande intuizione della filosofia greca? Che dietro l’apparente caos del divenire si cela in realtà un ordine, un disegno intelligente che ne regola efficacemente i movimenti.[10]

Non è ingenuo fisicismo o biologismo. Il giudizio degli studenti sull’innaturalità dei rapporti prematrimoniali non può essere paragonato a esempi stupidi come il tapparsi le orecchie, il camminare sulle mani e simili. C’è qualcosa di più; e di diverso. Talvolta, infatti, è naturale tapparsi le orecchie (per proteggerci, o per gioco…) e talvolta è naturale camminare sulle mani (per giocare, allenarci…); e quasi sempre è naturale mangiare un gelato semplicemente perché ci piace: nessuno per tali casi solleva dubbi seri di innaturalità. Lo si potrebbe semmai paragonare a tapparsi definitivamente le orecchie o a precludere per sempre i movimenti delle dita, o anche a causare l’estinzione dei gufi maculati del Pacifico. L’innaturale è l’intuizione di un fine e di una ricchezza intelligibili della natura: qualcosa che non va frustrato senza che si dia un motivo sufficiente per farlo. È evidente, ad esempio, che non bisogna tapparsi definitivamente le orecchie a meno che non sia l’unico modo per salvarsi la vita, o che non bisogna intenzionalmente estinguere i gufi maculati a meno che non sia l’unico modo per salvare le altre razze animali o la stessa razza umana. Il piacere di farlo non è un motivo sufficiente: questa è un’altra evidenza logicamente implicita nell’intuizione.

“C’è qualcosa di innaturale nel sesso occasionale!” è il giudizio intuitivo che il sesso ha un significato oggettivo intelligibile e che non si danno motivi validi per ostacolarlo o frustrarlo. È dunque al tempo stesso un’intuizione morale: l’intuizione che la natura (non il fatto bensì l’ordine) è importante e che il significato oggettivo del sesso è più importante del suo significato soggettivo. Mi spiego meglio. Nessuno nega (e soprattutto al livello intuitivo) che il piacere sia naturale. Il giudizio spontaneo di innaturalità sottende dunque una gerarchia etica. Esso significa che, nel contesto dell’agire umano (libero e responsabile), la naturalità del piacere non deve vanificare la naturalità oggettiva intrinseca all’azione da compiere, e che il rispetto di quest’ordine di importanza è precisamente ciò che per l’essere umano è moralmente naturale. L’unione coniugale possiede un valore morale più alto del mero piacere del sesso. Perciò, se il sesso fuori del matrimonio danneggia la futura possibile unione coniugale, questo stesso fatto giustifica la conclusione spontanea che quel sesso è innaturale e dev’essere evitato.

5. Il senso comune dell’unione coniugale

Non era dunque un semplice dato di fatto in gioco ma l’altissimo valore che la nostra coscienza attribuisce spontaneamente all’unione coniugale. Ciò che è innaturale è porre il piacere del sesso al di sopra di essa, ed è innaturale perché la nostra natura etica non conferisce al solo piacere un tale primato. Sono convinto che questa è una buona interpretazione dei giudizi di senso comune impliciti nella discussione avuta coi miei studenti. Tale interpretazione, però, sposta il problema a un altro e più profondo livello di conoscenza implicita: che cos’è quest’unione coniugale? Che sia qualcosa di molto importante è assodato, ma che cosa esattamente? Finché il “che cosa” non sarà più chiaro anche i contorni del “perché” rimarranno incerti.

Non c’è modo di esaurire la risposta, e a maggior ragione in poche righe. Cerco di aiutarmi scrutando il mio stesso senso comune, la mia conoscenza implicita. Che c’è nell’unione coniugale da farla così grande, bella e attraente? La solitudine sta sull’altra sponda: bisogna probabilmente partire da lì. L’essere umano non è fatto per stare da solo. Qualunque cosa sia “solitudine” è certamente inumano e innaturale. Il linguaggio in cui viviamo non è solitudine; e così il pensiero, fatto dell’alterità di miriadi di concetti e segni linguistici. La storia non è solitudine; e la scienza, la letteratura, la posta elettronica e la preghiera. I valori morali non sono solitudine. I nostri corpi non sono solitudine… Dare a qualcuno la nostra importanza ed essere importanti per qualcuno sono tutto il nostro essere morale. Nulla vale la pena se non c’è qualcuno a cui darlo, o con cui farlo e condividerlo; e nulla importa se non c’è qualcuno che pensa a noi per noi stessi, cioè che ci ama. Se Dio non c’è, se la sua provvidenza non ci dà assoluta importanza al di là del tempo e dello spazio, siamo tutti condannati all’infelicità di un’esistenza limitata e senza senso, a una solitudine cosmica.

Unione coniugale è anzitutto creare insieme. La vita è un grande progetto, e l’unione coniugale è l’aspirazione a progettarlo insieme e condividerne tutta l’avventura. Donazione totale, condivisione totale e accettazione totale formano i primi sentimenti morali genuini di una giovane coppia; i primi tentativi buffi di dimostrare che “niente ha senso senza di te”, e “che tutto ciò che sono e faccio ti appartengono” e “che tutto ciò che ti riguarda è per me importante e mi piace”. Fedeltà è dimostrare a qualcuno che vale così tanto da donargli tutto senza riserve. Chi non è fedele “per sempre” perde la possibilità di realizzare il suo essere morale.

Ma l’insieme del progetto coniugale non è astratto o indeterminato; non è un insieme qualsiasi e un progetto qualsiasi: è l’insieme dei due sessi e di tutto ciò che essi significano. L’insieme del corpo maschile è il corpo femminile, e l’insieme dei due è il matrimonio e la famiglia. Il creare insieme si estende nella storia e nelle generazioni: è il desiderio di figli che è anch’esso inscritto nella differenza e nell’unione dei due sessi. Già oltre l’esistenza individuale, il creare insieme si estende poi anche a Dio: è il desiderio di collaborare con Lui nella storia co-creando la generazione successiva e la società del domani. Il matrimonio autentico, non c’è dubbio, ha sempre una connotazione religiosa: il senso di una missione che trascende la storia orizzontale, e in cui sia lo sposo sia i figli sono misterioso dono e prestito che non può essere tradito.

Intendo tutto questo come uno schizzo della conoscenza spontanea che tutti, più o meno, abbiamo dell’unione coniugale. Tale conoscenza scaturisce gradatamente dall’esperienza (teoretico-morale) della sessualità; cioè, dal contatto esistenziale con l’essere umano maschio e femmina. È la progressiva scoperta del significato intrinseco di essa; un significato che attrae e mette in moto, senza intermediari, la ragion pratica. L’unione coniugale è il perché teoretico del sesso, dell’esistenza del duplice essere umano. Ed è buona; e qualunque cosa la danneggi è male e innaturale.

6. Effetto automatico, fatti e legge naturale

Tommaso d’Aquino dimostra l’illiceità del sesso prematrimoniale in maniera indiretta, in quanto esso implica o la malizia della contraccezione o il rischio irresponsabile e ingiusto di mettere al mondo un bambino fuori dall’unione stabile sponsale: il solo habitat naturale alla sua crescita e sviluppo come uomo.[11] Per i fini di Tommaso questo duplice argomento è forte e convincente (non mi soffermerò adesso su come egli lo svolge).[12] Possiamo sempre immaginare, tuttavia, il caso ideale di due soggetti così sterili da non aver bisogno di contraccettivi senza per ciò stesso incorrere in alcun “rischio”. Che ci sarebbe di male in questo caso? Ci sarebbe di male precisamente che il sesso non avverrebbe nel suo contesto di significato, che è l’unione coniugale. E che, quando non avviene in quel contesto, lo danneggia necessariamente.

Tutto ciò può essere anche spiegato e approfondito tramite uno studio dell’intenzionalità degli agenti morali. Dicendo, ad esempio, che c’è in essa una mancanza di donazione e accettazione totale e una conseguente strumentalizzazione del partner; che nel sesso occasionale o prematrimoniale il linguaggio del corpo (di cui procreazione è una delle voci principali) parla in direzione diversa dall’occasionalità o parzialità del rapporto; che la virtù della castità – la virtù dell’armonia tra l’io corporeo e l’io spirituale – non può essere esercitata, e che è probabilmente anche per ciò che diminuisce la capacità di fedeltà dei soggetti coinvolti; ecc.

Queste riflessioni sono certamente da fare e sviluppare. I miei studenti però avevano ragione. Il punto fondamentale da cui bisogna partire non è una riflessione astratta sui significati e sulle intenzioni, ma il fatto inequivocabile dell’effetto unitivo automatico del sesso. Un effetto che, senza dubbio, dipende dall’intenzionalità delle scelte libere degli agenti, ma che è comunque un fatto di (relativamente) facile interpretazione.

Il sesso prematrimoniale danneggia di fatto la fedeltà coniugale e bisognerà dunque meglio definirlo come sesso anti-matrimoniale. Chi non è d’accordo faccia pure quel che vuole (Ovvio! Non è questo il punto). Nessuno, però, potrà sfuggire al fatto che chi pratica sesso prematrimoniale non è un buon partito, o comunque non è il partito migliore. Ogni genitore assennato dovrebbe dare questo consiglio. Si tratta di una regola prudenziale che le statistiche sui divorzi possono facilmente confermare: chi vuole un matrimonio felice, riuscito, fedele… deve anzitutto preferire persone che non abbiano avuto altri partner sessuali; e poi, con la persona prescelta, deve cercare di aspettare la prima notte di matrimonio. Ripeto: non c’è niente di strano a dire ciò e, in fondo,… tutti lo sanno.

E neppure c’è niente di strano in questo nesso intrinseco tra fatti (corporei) e morale. Se è vero che c’è una natura umana e una legge morale naturale, ogni violazione avrà necessariamente effetti facilmente riscontrabili, magari non nel caso singolo ma certamente nei grandi numeri. Il ragionamento funziona anche al contrario: se è vero che ci sono connessioni riscontrabili tra fatti (corporei) ed effetti (morali), allora è vero che esiste una natura umana e una legge morale naturale; è vero cioè che, piaccia o no, le nostre azioni e scelte producono necessariamente certi effetti non scelti nella nostra personalità morale. Detto ancora più brutalmente: la legge morale è statisticamente verificabile e i suoi effetti sono scientificamente prevedibili. Non nel senso delle verifiche delle scienze empiriche ma nel senso delle verifiche empiriche morali: quelle delle virtù e dei vizi.

Già Aristotele ne aveva raggiunto piena consapevolezza. Per lui, si sa, la scienza morale non può assurgere allo stesso grado di certezza e stabilità delle altre scienze,[13] ma nella realtà umana non c’è nulla di più stabile e certo della virtù. «Infatti intorno a nessuna delle opere umane sussiste certezza così come intorno alle attività conformi a virtù: tutti infatti concorderanno che queste sono più stabili anche delle scienze».[14] L’amicizia del virtuoso (inclusa la particolare amicizia che si realizza nell’unione coniugale) è perciò l’amicizia più stabile e durevole.[15] E una società non casta, possiamo aggiungere e verificare noi, sarà ricca di divorzi e povera di figli: subirà cioè tutti gli effetti del danno ai due beni principali dell’unione coniugale.

Detto incidentalmente: la verificabilità fattuale della legge naturale è anche la ragione principale del valore prudenziale da attribuire ai giudizi etici della tradizione. I fatti della legge morale sono infatti molto evidenti nel lungo periodo. Alcuni di essi possono sfuggire talvolta a qualche individuo o istituzione, e a qualche società o a qualche decennio, ma non al lungo, lento e inesorabile camminare della storia. La tradizione tende a conservare le letture migliori e più sagge della natura e a disperdere e dimenticare quelle miopi, false o menzognere. Quando siano in gioco giudizi prudenziali è sempre meglio dare più credibilità alle miriadi di uomini che ci hanno preceduto piuttosto che a pochi innovatori del nostro tempo.

C’è un ultimo punto con cui vorrei chiudere questa riflessione. Ho detto prima che i nostri giudizi spontanei sull’innaturalità di certe azioni umane si fondano sull’intuizione radicale, teoretica e morale, che c’è un ordine nella natura e che tale ordine è importante. Sono convinto che tutti condividiamo più o meno quest’intuizione radicale, e che tutti, almeno in alcuni ambiti, cerchiamo di conformarci a ciò che di quell’ordine riusciamo a comprendere. Perché?

Quell’intuizione radicale avviene in realtà in direzione trascendente. Essa nasconde l’intuizione ancora più profonda di un’Alterità personale creatrice di quell’ordine; un Qualcuno che lo ha voluto rendendolo importante in sé. L’ordine della natura ci parla della volontà di Dio. E se tale ordine appare più importante di quello disponibile alla soggettività del nostro piacere, ciò significa che per natura tendiamo prima di tutto all’unione con Dio e percepiamo la sua volontà come il fondamento di ogni moralità.[16] Ed ecco un altro fatto verificabile della legge naturale: l’uomo sinceramente etico – quello pronto a sacrificare i propri piaceri per il bene e i princìpi morali – e l’uomo sinceramente religioso tendono a coincidere.


* Presidente di Thomas International

[1]   Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1959, p. 321.

[2]  Lina, Blessed are the Pure of Heart. La fonte principale usata da Lina con riguardo all’oxytocin è M.B. Bonnaci, Real Love, Ignatius Press, San Francisco 1996.

[3]  Lina, cit.

[4]  Anna, Premarital Sex: Moral and Social Dilemma.

[5]  Aaron, The Ethics of Pre-marital Sex. A Logical Approach.

[6]  Se questo non dovesse succedere significa che probabilmente non erano ancora pronti per il matrimonio e non si rendono pienamente conto di quel che stanno facendo.

[7]  K. Wojtyla, Amore e responsabilità, Marietti, Genova 1983, p. 160.

[8]  Passa certamente per tante altre emozioni, ma che non hanno nulla a che vedere con la fedeltà coniugale.

[9]  Andrew, Understanding Catholicism’s Opposition Toward Pre-marital Sex. Questo giudizio di Andrew è tanto più interessante in quanto non accompagnato da una condanna personale del sesso prematrimoniale. Andrew, tuttavia, nonostante l’insistenza dei suoi colleghi, non ha dato una spiegazione dettagliata della sua posizione, che non sono quindi in grado di riportare.

[10]  È certamente degno di nota che sia i primi filosofi greci sia i miei studenti hanno subito collegato questa prima intuizione sul senso della natura con l’esistenza di Dio (o, comunque, del divino).

[11]  T. d’Aquino, Summa contra gentiles, III, cap. 122.

[12]  Mi permetto di rimandare su ciò al mio Dio e la legge naturale, ETS, Pisa 1999, pp. 220-32.

[13]  Cfr., ad es., Eth. Nic. I, 1, 1094b12-23.

[14]  Ibid., I, 11, 1100b12-15.

[15]  Ibid., VI, 4-5, 1156b6-1167a35.

[16]  Ho cercato di spiegare come questi elementi si intreccino armoniosamente nella filosofia di Tommaso d’Aquino nel mio Natural Law as Inclination to God,in corso di pubblicazione.

Sulla cura pastorale delle persone omosessuali

LETTERA AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA SULLA CURA PASTORALE DELLE PERSONE OMOSESSUALI
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
1. Il problema dell’omosessualità e del giudizio etico sugli atti omosessuali è divenuto sempre più oggetto di pubblico dibattito, anche in ambienti cattolici. In questa discussione vengono spesso proposte argomentazioni ed espresse posizioni non conformi con l’insegnamento della Chiesa Cattolica, destando una giusta preoccupazione in tutti coloro che sono impegnati nel ministero pastorale. Di conseguenza questa Congregazione ha ritenuto il problema così grave e diffuso da giustificare la presente Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali, indirizzata a tutti i Vescovi della Chiesa Cattolica.
2. Naturalmente in questa sede non può essere affrontata una trattazione esaustiva di tale complesso problema; si concentrerà piuttosto l’attenzione sul contesto specifico della prospettiva morale cattolica. Essa trova conforto anche in sicuri risultati delle scienze umane, le quali pure hanno un oggetto e un metodo loro proprio, che godono di legittima autonomia.
La posizione della morale cattolica è fondata sulla ragione umana illuminata dalla fede e guidata consapevolmente dall’intento di fare la volontà di Dio, nostro Padre. In tal modo la Chiesa è in grado non solo di poter imparare dalle scoperte scientifiche, ma anche di trascenderne l’orizzonte; essa è certa che la sua visione più completa rispetta la complessa realtà della persona umana che, nelle sue dimensioni spirituale e corporea, è stata creata da Dio e, per sua grazia, chiamata a essere erede della vita eterna.
Solo all’interno di questo contesto, si può dunque comprendere con chiarezza in che senso il fenomeno dell’omosessualità, con le sue molteplici dimensioni e con i suoi effetti sulla società e sulla vita ecclesiale, sia un problema che riguarda propriamente la preoccupazione pastorale della Chiesa. Pertanto dai suoi ministri si richiede studio attento, impegno concreto e riflessione onesta, teologicamente equilibrata.
3. Già nella «Dichiarazione su alcune questioni di etica sessuale », del 29 dicembre 1975, la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva esplicitamente trattato questo problema. In quella Dichiarazione si sottolineava il dovere di cercare di comprendere la condizione omosessuale, e si osservava come la colpevolezza degli atti omosessuali dovesse essere giudicata con prudenza. Nello stesso tempo la Congregazione teneva conto della distinzione comunemente operata fra condizione o tendenza omosessuale e atti omosessuali. Questi ultimi venivano descritti come atti che vengono privati della loro finalità essenziale e indispensabile, come «intrinsecamente disordinati » e tali che non possono essere approvati in nessun caso (cf. n. 8, par. 4).
Tuttavia nella discussione che seguì la pubblicazione della Dichiarazione, furono proposte delle interpretazioni eccessivamente benevole della condizione omosessuale stessa, tanto che qualcuno si spinse fino a definirla indifferente o addirittura buona. Occorre invece precisare che la particolare inclinazione della persona omosessuale, benché non sia in sé peccato, costituisce tuttavia una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per questo motivo l’inclinazione stessa dev’essere considerata come oggettivamente disordinata.
Pertanto coloro che si trovano in questa condizione dovrebbero essere oggetto di una particolare sollecitudine pastorale perché non siano portati a credere che l’attuazione di tale tendenza nelle relazioni omosessuali sia un’opzione moralmente accettabile.
4. Una delle dimensioni essenziali di un’autentica cura pastorale è l’identificazione delle cause che hanno portato confusione nei confronti dell’insegnamento della Chiesa. Tra esse va segnalata una nuova esegesi della Sacra Scrittura, secondo cui la Bibbia o non avrebbe niente da dire sul problema dell’omosessualità, o addirittura ne darebbe in qualche modo una tacita approvazione, oppure infine offrirebbe prescrizioni morali così culturalmente e storicamente condizionate che non potrebbero più essere applicate alla vita contemporanea. Tali opinioni, gravemente erronee e fuorvianti, richiedono dunque speciale vigilanza.
5. È vero che la letteratura biblica è debitrice verso le varie epoche, nelle quali fu scritta, di gran parte dei suoi modelli di pensiero e di espressione (cf. Dei Verbum, n. 12). Certamente, la Chiesa di oggi proclama il Vangelo a un mondo che è assai diverso da quello antico. D’altra parte il mondo nel quale il Nuovo Testamento fu scritto era già notevolmente mutato, per esempio, rispetto alla situazione nella quale furono scritte o redatte le Sacre Scritture del popolo ebraico.
Dev’essere tuttavia rilevato che, pur nel contesto di tale notevole diversità, esiste un’evidente coerenza all’interno delle Scritture stesse sul comportamento omosessuale. Perciò la dottrina della Chiesa su questo punto non è basata solo su frasi isolate, da cui si possono trarre discutibili argomentazioni teologiche, ma piuttosto sul solido fondamento di una costante testimonianza biblica. L’odierna comunità di fede, in ininterrotta continuità con le comunità giudaiche e cristiane all’interno delle quali le antiche Scritture furono redatte, continua a essere nutrita da quelle stesse Scritture e dallo Spirito di Verità di cui esse sono Parola. È egualmente essenziale riconoscere che i testi sacri non sono realmente compresi quando vengono interpretati in un modo che contraddice la Tradizione vivente della Chiesa. Per essere corretta, l’interpretazione della Scrittura dev’essere in effettivo accordo con questa Tradizione.
Il Concilio Vaticano II così si esprime al riguardo: «È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non poter indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime» (Dei Verbum, n. 10). Alla luce di queste affermazioni viene ora brevemente delineato l’insegnamento della Bibbia in materia.
6. La teologia della creazione, presente nel libro della Genesi, fornisce il punto di vista fondamentale per la comprensione adeguata dei problemi posti dall’omosessualità. Dio, nella sua infinita sapienza e nel suo amore onnipotente, chiama all’esistenza tutta la realtà, quale riflesso della sua bontà. Egli crea a sua immagine e somiglianza l’uomo, come maschio e femmina. Gli esseri umani perciò sono creature di Dio, chiamate a rispecchiare, nella complementarietà dei sessi, l’interiore unità del Creatore. Essi realizzano questo compito in modo singolare, quando cooperano con lui nella trasmissione della vita, mediante la reciproca donazione sponsale.
Il cap. 3 della Genesi mostra come questa verità sulla persona umana quale immagine di Dio sia stata oscurata dal peccato originale. Ne segue inevitabilmente una perdita della consapevolezza del carattere di alleanza, proprio dell’unione che le persone umane avevano con Dio e fra di loro. Benché il corpo umano conservi ancora il suo « significato sponsale », ora questo è oscurato dal peccato. Così il deterioramento dovuto al peccato continua a svilupparsi nella storia degli uomini di Sodoma (cf. Gen 19, 1-11). Non vi può essere dubbio sul giudizio morale ivi espresso contro le relazioni omosessuali. In Levitico 18, 22 e 20, 13, quando vengono indicate le condizioni necessarie per appartenere al popolo eletto, l’Autore esclude dal popolo di Dio coloro che hanno un comportamento omosessuale.
Sullo sfondo di questa legislazione teocratica, San Paolo sviluppa una prospettiva escatologica, all’interno della quale egli ripropone la stessa dottrina, elencando tra coloro che non entreranno nel regno di Dio anche chi agisce da omosessuale (cf. 1 Cor 6, 9). In un altro passaggio del suo epistolario egli, fondandosi sulle tradizioni morali dei suoi antenati, ma collocandosi nel nuovo contesto del confronto tra il Cristianesimo e la società pagana dei suoi tempi, presenta il comportamento omosessuale come un esempio della cecità nella quale è caduta l’umanità. Sostituendosi all’armonia originaria fra il Creatore e le creature, la grave deviazione dell’idolatria ha condotto a ogni sorta di eccessi nel campo morale. San Paolo trova l’esempio più chiaro di questa disarmonia proprio nelle relazioni omosessuali (cf. Rom 1, 18-32). Infine, in perfetta continuità con l’insegnamento biblico, nell’elenco di coloro che agiscono contrariamente alla sana dottrina, vengono esplicitamente menzionati come peccatori coloro che compiono atti omosessuali (cf. 1 Tim 1, 10).
7. La Chiesa, obbediente al Signore che l’ha fondata e le ha fatto dono della vita sacramentale, celebra nel sacramento del matrimonio il disegno divino dell’unione amorosa e donatrice di vita dell’uomo e della donna. È solo nella relazione coniugale che l’uso della facoltà sessuale può essere moralmente retto. Pertanto una persona che si comporta in modo omosessuale agisce immoralmente.
Scegliere un’attività sessuale con una persona dello stesso sesso equivale ad annullare il ricco simbolismo e il significato, per non parlare dei fini, del disegno del Creatore a riguardo della realtà sessuale. L’attività omosessuale non esprime un’unione complementare, capace di trasmettere la vita, e pertanto contraddice la vocazione a un’esistenza vissuta in quella forma di auto-donazione che, secondo il Vangelo, è l’essenza stessa della vita cristiana. Ciò non significa che le persone omosessuali non siano spesso generose e non facciano dono di se stesse, ma quando si impegnano in un’attività omosessuale esse rafforzano al loro interno una inclinazione sessuale disordinata, per se stessa caratterizzata dall’autocompiacimento.
Come accade per ogni altro disordine morale, l’attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio. Quando respinge le dottrine erronee riguardanti l’omosessualità, la Chiesa non limita ma piuttosto difende la libertà e la dignità della persona, intese in modo realistico e autentico.
8. L’insegnamento della Chiesa di oggi è quindi in continuità organica con la visione della S. Scrittura e con la costante Tradizione. Anche se il mondo di oggi è da molti punti di vista veramente cambiato, la comunità cristiana è consapevole del legame profondo e duraturo che la unisce alle generazioni che l’hanno preceduta «nel segno della fede».
Tuttavia oggi un numero sempre più vasto di persone, anche all’interno della Chiesa, esercitano una fortissima pressione per portarla ad accettare la condizione omosessuale, come se non fosse disordinata, e a legittimare gli atti omosessuali. Quelli che, all’interno della comunità di fede, spingono in questa direzione, hanno sovente stretti legami con coloro che agiscono al di fuori di essa. Ora questi gruppi esterni sono mossi da una visione opposta alla verità sulla persona umana, che ci è stata pienamente rivelata nel mistero di Cristo. Essi manifestano, anche se non in modo del tutto cosciente, un’ideologia materialistica, che nega la natura trascendente della persona umana, così come la vocazione soprannaturale di ogni individuo.
I ministri della Chiesa devono far in modo che le persone omosessuali affidate alle loro cure non siano fuorviate da queste opinioni, così profondamente opposte all’insegnamento della Chiesa. Tuttavia il rischio è grande e ci sono molti che cercano di creare confusione nei riguardi della posizione della Chiesa e di sfruttare questa confusione per i loro scopi.
9. Anche all’interno della Chiesa si è formata una tendenza, costituita da gruppi di pressione con diversi nomi e diversa ampiezza, che tenta di accreditarsi quale rappresentante di tutte le persone omosessuali che sono cattoliche. Di fatto i suoi seguaci sono per lo più persone che o ignorano l’insegnamento della Chiesa o cercano in qualche modo di sovvertirlo. Si tenta di raccogliere sotto l’egida del Cattolicesimo persone omosessuali che non hanno alcuna intenzione di abbandonare il loro comportamento omosessuale. Una delle tattiche usate è quella di affermare, con toni di protesta, che qualsiasi critica o riserva nei confronti delle persone omosessuali, delle loro attività e del loro stile di vita, è semplicemente una forma di ingiusta discriminazione.
È pertanto in atto in alcune nazioni un vero e proprio tentativo di manipolare la Chiesa conquistandosi il sostegno, spesso in buona fede, dei suoi pastori, nello sforzo volto a cambiare le norme della legislazione civile. Il fine di tale azione è conformare questa legislazione alla concezione propria di questi gruppi di pressione, secondo cui l’omosessualità è almeno una realtà perfettamente innocua, se non totalmente buona. Benché la pratica dell’omosessualità stia minacciando seriamente la vita e il benessere di un gran numero di persone, i fautori di questa tendenza non desistono dalla loro azione e rifiutano di prendere in considerazione le proporzioni del rischio, che vi è implicato.
La Chiesa non può non preoccuparsi di tutto questo e pertanto mantiene ferma la sua chiara posizione al riguardo, che non può essere modificata sotto la pressione della legislazione civile o della moda del momento. Essa si preoccupa sinceramente anche dei molti che non si sentono rappresentati dai movimenti pro-omosessuali, e di quelli che potrebbero essere tentati di credere alla loro ingannevole propaganda. Essa è consapevole che l’opinione, secondo la quale l’attività omosessuale sarebbe equivalente, o almeno altrettanto accettabile, quanto l’espressione sessuale dell’amore coniugale, ha un’incidenza diretta sulla concezione che la società ha della natura e dei diritti della famiglia, e li mette seriamente in pericolo.
10. Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei pastori della Chiesa, ovunque si verifichino. Essi rivelano una mancanza di rispetto per gli altri, lesiva dei principi elementari su cui si basa una sana convivenza civile. La dignità propria di ogni persona dev’essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni.
Tuttavia, la doverosa reazione alle ingiustizie commesse contro le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’affermazione che la condizione omosessuale non sia disordinata. Quando tale affermazione viene accolta e di conseguenza l’attività omosessuale è accettata come buona, oppure quando viene introdotta una legislazione civile per proteggere un comportamento al quale nessuno può rivendicare un qualsiasi diritto, né la Chiesa né la società nel suo complesso dovrebbero poi sorprendersi se anche altre opinioni e pratiche distorte guadagnano terreno e se i comportamenti irrazionali e violenti aumentano.
11. Alcuni sostengono che la tendenza omosessuale, in certi casi, non è il risultato di una scelta deliberata e che la persona omosessuale non ha alternative, ma è costretta a comportarsi in modo omosessuale. Di conseguenza si afferma che essa agirebbe in questi casi senza colpa, non essendo veramente libera.
A questo proposito è necessario rifarsi alla saggia tradizione morale della Chiesa, la quale mette in guardia dalle generalizzazioni nel giudizio dei casi singoli. Di fatto in un caso determinato possono essere esistite nel passato e possono tuttora sussistere circostanze tali da ridurre o addirittura da togliere la colpevolezza del singolo; altre circostanze al contrario possono accrescerla. Dev’essere comunque evitata la presunzione infondata e umiliante che il comportamento omosessuale delle persone omosessuali sia sempre e totalmente soggetto a coazione e pertanto senza colpa. In realtà anche nelle persone con tendenza omosessuale dev’essere riconosciuta quella libertà fondamentale che caratterizza la persona umana e le conferisce la sua particolare dignità. Come in ogni conversione dal male, grazie a questa libertà, lo sforzo umano, illuminato e sostenuto dalla grazia di Dio, potrà consentire ad esse di evitare l’attività omosessuale.
12. Che cosa deve fare dunque una persona omosessuale, che cerca di seguire il Signore? Sostanzialmente, queste persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, unendo ogni sofferenza e difficoltà che possano sperimentare a motivo della loro condizione, al sacrificio della croce del Signore. Per il credente, la croce è un sacrificio fruttuoso, poiché da quella morte provengono la vita e la redenzione. Anche se ogni invito a portare la croce o a intendere in tal modo la sofferenza del cristiano sarà prevedibilmente deriso da qualcuno, si dovrebbe ricordare che questa è la via della salvezza per tutti coloro che sono seguaci di Cristo.
In realtà questo non è altro che l’insegnamento rivolto dall’apostolo Paolo ai Galati, quando egli dice che lo Spirito produce nella vita del fedele: «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé» e più oltre: «Non potete appartenere a Cristo senza crocifiggere la carne con le sue passioni e i suoi desideri » (Gal 5, 22. 24).
Tuttavia facilmente questo invito viene male interpretato, se è considerato solo come un inutile sforzo di auto-rinnegamento. La croce è sì un rinnegamento di sé, ma nell’abbandono alla volontà di quel Dio che dalla morte trae fuori la vita e abilita coloro, che pongono in Lui la loro fiducia, a praticare la virtù invece del vizio.
Si celebra veramente il Mistero Pasquale solo se si lascia che esso permei il tessuto della vita quotidiana. Rifiutare il sacrificio della propria volontà nell’obbedienza alla volontà del Signore è di fatto porre ostacolo alla salvezza. Proprio come la croce è il centro della manifestazione dell’amore redentivo di Dio per noi in Gesù, così la conformità dell’autorinnegamento di uomini e donne omosessuali con il sacrificio del Signore costituirà per loro una fonte di autodonazione che li salverà da una forma di vita che minaccia continuamente di distruggerli.
Le persone omosessuali sono chiamate come gli altri cristiani a vivere la castità. Se si dedicano con assiduità a comprendere la natura della chiamata personale di Dio nei loro confronti, esse saranno in grado di celebrare più fedelmente il sacramento della Penitenza, e di ricevere la grazia del Signore, in esso così generosamente offerta, per potersi convertire più pienamente alla sua sequela.
13. È evidente, d’altra parte, che una chiara ed efficace trasmissione della dottrina della Chiesa a tutti i fedeli e alla società nel suo complesso dipende in larga misura dal corretto insegnamento e dalla fedeltà di chi esercita il ministero pastorale. I Vescovi hanno la responsabilità particolarmente grave di preoccuparsi che i loro collaboratori nel ministero, e soprattutto i sacerdoti, siano rettamente informati e personalmente ben disposti a comunicare a ognuno la dottrina della Chiesa nella sua integrità.
La particolare sollecitudine e la buona volontà dimostrata da molti sacerdoti e religiosi nella cura pastorale per le persone omosessuali è ammirevole, e questa Congregazione spera che essa non diminuirà. Tali ministri zelanti devono nutrire la certezza che stanno seguendo fedelmente la volontà del Signore, allorché incoraggiano la persona omosessuale a condurre una vita casta, e ricordano la dignità incomparabile che Dio ha donato anche ad essa.
14. Considerando quanto sopra, questa Congregazione desidera chiedere ai Vescovi di essere particolarmente vigilanti nei confronti di quei programmi che di fatto tentano di esercitare una pressione sulla Chiesa perché essa cambi la sua dottrina, anche se a parole talvolta si nega che sia così. Un attento studio delle dichiarazioni pubbliche in essi contenute e delle attività che promuovono rivela una calcolata ambiguità, attraverso cui cercano di fuorviare i pastori e i fedeli. Per esempio, essi presentano talvolta l’insegnamento del Magistero, ma solo come una fonte facoltativa in ordine alla formazione della coscienza. La sua autorità peculiare non è riconosciuta. Alcuni gruppi usano perfino qualificare come « cattoliche » le loro organizzazioni o le persone a cui intendono rivolgersi, ma in realtà essi non difendono e non promuovono l’insegnamento del Magistero, anzi talvolta lo attaccano apertamente. Per quanto i loro membri rivendichino di voler conformare la loro vita all’insegnamento di Gesù, di fatto essi abbandonano l’insegnamento della sua Chiesa. Questo comportamento contraddittorio non può avere in nessun modo l’appoggio dei Vescovi.
15. Questa Congregazione incoraggia pertanto i Vescovi a promuovere, nella loro diocesi, una pastorale verso le persone omosessuali in pieno accordo con l’insegnamento della Chiesa. Nessun programma pastorale autentico potrà includere organizzazioni, nelle quali persone omosessuali si associno tra loro, senza che sia chiaramente stabilito che l’attività omosessuale è immorale. Un atteggiamento veramente pastorale comprenderà la necessità di evitare alle persone omosessuali le occasioni prossime di peccato. Vanno incoraggiati quei programmi in cui questi pericoli sono evitati. Ma occorre chiarire bene che ogni allontanamento dall’insegnamento della Chiesa, o il silenzio su di esso, nella preoccupazione di offrire una cura pastorale, non è forma né di autentica attenzione né di valida pastorale. Solo ciò che è vero può ultimamente essere anche pastorale. Quando non si tiene presente la posizione della Chiesa si impedisce che uomini e donne omosessuali ricevano quella cura, di cui hanno bisogno e diritto.
Un programma pastorale autentico aiuterà le persone omosessuali a tutti i livelli della loro vita spirituale, mediante i sacramenti e in particolare la frequente e sincera confessione sacramentale, mediante la preghiera, la testimonianza, il consiglio e l’aiuto individuale. In tal modo, l’intera comunità cristiana può giungere a riconoscere la sua vocazione ad assistere questi suoi fratelli e queste sue sorelle, evitando loro sia la delusione sia l’isolamento.
16. Da questo approccio diversificato possono derivare molti vantaggi, non ultimo la constatazione che una persona omosessuale, come del resto ogni essere umano, ha una profonda esigenza di essere aiutato contemporaneamente a vari livelli.
La persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, non può essere definita in modo adeguato con un riduttivo riferimento solo al suo orientamento sessuale. Qualsiasi persona che vive sulla faccia della terra ha problemi e difficoltà personali, ma anche opportunità di crescita, risorse, talenti e doni propri. La Chiesa offre quel contesto del quale oggi si sente una estrema esigenza per la cura della persona umana, proprio quando rifiuta di considerare la persona puramente come un « eterosessuale » o un « omosessuale » e sottolinea che ognuno ha la stessa identità fondamentale: essere creatura e, per grazia, figlio di Dio, erede della vita eterna.
17. Offrendo all’attenzione dei Vescovi tali chiarificazioni e orientamenti pastorali, questa Congregazione desidera aiutare i loro sforzi volti ad assicurare che l’insegnamento del Signore e della sua Chiesa su questo importante tema sia trasmesso a tutti i fedeli in modo integro.
Alla luce di quanto ora esposto, gli Ordinari del luogo sono invitati a valutare, nell’ambito della loro competenza, la necessità di particolari interventi. Inoltre, se ritenuto utile, si potrà ricorrere ad una ulteriore azione coordinata a livello delle conferenze episcopali nazionali.
In particolare i Vescovi si premureranno di sostenere con i mezzi a loro disposizione lo sviluppo di forme specializzate di cura pastorale per persone omosessuali. Ciò potrebbe includere la collaborazione delle scienze psicologiche, sociologiche e mediche, sempre mantenendosi in piena fedeltà alla dottrina della Chiesa.
Soprattutto i Vescovi non mancheranno di sollecitare la collaborazione di tutti i teologi cattolici, i quali, insegnando ciò che la Chiesa insegna e approfondendo con le loro riflessioni il significato autentico della sessualità umana e del matrimonio cristiano nel piano divino, nonché delle virtù che esso comporta, potranno così offrire un valido aiuto in questo campo specifico dell’attività pastorale.
Particolare attenzione dovranno quindi avere i Vescovi nella scelta dei ministri incaricati di questo delicato compito, in modo che essi, per la loro fedeltà al Magistero e per il loro elevato grado di maturità spirituale e psicologica, possano essere di reale aiuto alle persone omosessuali, per il conseguimento del loro bene integrale. Tali ministri respingeranno le opinioni teologiche che sono contrarie all’insegnamento della Chiesa e che quindi non possono servire da direttive in campo pastorale.
Inoltre sarà conveniente promuovere appropriati programmi di catechesi, fondati sulla verità riguardante la sessualità umana, nella sua relazione con la vita della famiglia, così come è insegnata dalla Chiesa. Tali programmi forniscono infatti un ottimo contesto, all’interno del quale può essere trattata anche la questione dell’omosessualità. Questa catechesi potrà aiutare anche quelle famiglie, in cui si trovano persone omosessuali, nell’affrontare un problema che le tocca così profondamente.
Dovrà essere ritirato ogni appoggio a qualunque organizzazione che cerchi di sovvertire l’insegnamento della Chiesa, che sia ambigua nei suoi confronti, o che lo trascuri completamente. Un tale appoggio, o anche l’apparenza di esso, può dare origine a gravi fraintendimenti. Speciale attenzione dovrebbe essere rivolta alla pratica della programmazione di celebrazioni religiose e all’uso di edifici appartenenti alla Chiesa da parte di questi gruppi, compresa la possibilità di disporre delle scuole e degli istituti cattolici di studi superiori. A qualcuno tale permesso di far uso di una proprietà della Chiesa può sembrare solo un gesto di giustizia e di carità, ma in realtà esso è in contraddizione con gli scopi stessi per i quali queste istituzioni sono state fondate, e può essere fonte di malintesi e di scandalo.
Nel valutare eventuali progetti legislativi, si dovrà porre in primo piano l’impegno a difendere e promuovere la vita della famiglia.
18. Il Signore Gesù ha detto: « Voi conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (Gv 8, 32). La Scrittura ci comanda di fare la verità nella carità (cf. Ef 4, 15).
Dio che è insieme verità e amore chiama la Chiesa a mettersi al servizio di ogni uomo, donna e bambino con la sollecitudine pastorale del nostro Signore misericordioso. In questo spirito la Congregazione per la Dottrina della Fede ha rivolto questa Lettera a voi, Vescovi della Chiesa, con la speranza che vi sia di aiuto nella cura pastorale di persone, le cui sofferenze possono solo essere aggravate da dottrine errate e alleviate invece dalla parola della verità.
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza accordata al sottoscritto Prefetto, ha approvato la presente Lettera, decisa nella riunione ordinaria di questa Congregazione e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma,
dalla Sede della Congregazione
per la Dottrina della Fede,
1° ottobre 1986.
Joseph Card. Ratzinger – Prefetto
+ Alberto Bovone – Arc. tit. di Cesarea di Numidia -Segretario

Persona Humana

PERSONA HUMANA – ALCUNE QUESTIONI DI ETICA SESSUALE
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE 29 dicembre 1975(1)
1. La persona umana, a giudizio degli scienziati del nostro tempo, è così profondamente influenzata dalla sessualità, che questa deve essere considerata come uno dei fattori che danno alla vita di ciascuno i tratti principali che la distinguono. Dal sesso, infatti, la persona umana deriva le caratteristiche che sul piano biologico, psicologico e spirituale la fanno uomo o donna, condizionando così grandemente l’iter del suo sviluppo verso la maturità e il suo inserimento nella società. È questa la ragione per cui – come chiunque può agevolmente costatare ciò che riguarda il sesso è oggi una materia che frequentemente e apertamente è trattata da libri, riviste, giornali e gli altri strumenti di comunicazione sociale.
Frattanto, s’è accresciuta la corruzione dei costumi, di cui uno dei più gravi indizi è la smoderata esaltazione del sesso, mentre con la diffusione degli strumenti di comunicazione sociale e degli spettacoli, essa è arrivata ad invadere il campo della educazione e ad inquinare la mentalità comune. In questo contesto, se alcuni educatori, pedagogisti o moralisti, hanno potuto contribuire a far meglio capire e integrare nella vita i peculiari valori dell’uno e dell’altro sesso, altri, invece, hanno proposto concezioni e modi di comportamento che sono in contrasto con le vere esigenze morali dell’essere umano, addirittura tali da favorire un licenzioso edonismo.
Ne è risultato che, anche tra i cristiani, insegnamenti, criteri morali e maniere di vivere, finora fedelmente conservati, sono stati nel giro di pochi anni fortemente scossi, e sono numerosi quelli che oggi, dinanzi a tante opinioni largamente diffuse e contrarie alla dottrina che hanno ricevuto dalla chiesa, finiscono col domandarsi quel che devono ancora ritenere per vero.
Difficoltà incontrate dai pastori ed educatori
2. La chiesa non può restare indifferente dinanzi a tale confusione degli spiriti e a tale rilassamento dei costumi. Si tratta, infatti, di una questione importantissima per la vita personale dei cristiani e per la vita sociale del nostro tempo.(2)
Ogni giorno i vescovi sono indotti a costatare le crescenti difficoltà che incontrano i fedeli nel prendere coscienza della sana dottrina morale, specialmente in materia sessuale, e i pastori nell’esporla con efficacia. Essi si sentono chiamati, in forza del loro ufficio pastorale, a rispondere su questo punto così grave ai bisogni dei fedeli ad essi affidati; e già importanti documenti sono stati pubblicati circa questa materia da alcuni di loro, o da alcune conferenze episcopali. Tuttavia, poiché le opinioni erronee e le deviazioni che ne risultano continuano a diffondersi dappertutto, la congregazione per la dottrina della fede, in virtù della sua funzione nei confronti della chiesa universale(3) e per mandato del sommo pontefice, ha ritenuto necessario pubblicare la presente dichiarazione.
3. Gli uomini del nostro tempo sono sempre più persuasi che la dignità e la vocazione della persona umana richiedono che, alla luce della loro ragione, essi scoprano i valori inscritti nella loro natura, che li sviluppino incessantemente e li realizzino nella loro vita, in vista di un sempre maggiore progresso.
Ma, in materia morale, l’uomo non può emettere giudizi di valore secondo il suo personale arbitrio: «Nell’intimo del propria coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a dati e alla quale deve obbedire… Egli ha una legge scritta da Dio dentro il suo cuore, obbedire alla quale è la dignità stessa del l’uomo e secondo la quale egli sarà giudicato».(4) Inoltre, a noi cristiani, Dio mediante la sua rivelazione ha fatto conoscere il suo disegno di salvezza e ha proposto il Cristo, salvatore e santificatore, nella sua dottrina e nel suo esempio, come la norma suprema e immutabile della vita, lui, il quale ha detto: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
Non può, dunque, esserci vera promozione della dignità dell’uomo se non nel rispetto dell’ordine essenziale della sua natura. Certo, nella storia della civiltà, molte condizioni concrete ed esigenze della vita umana sono mutate e muteranno ancora; ma ogni evoluzione dei costumi e ogni genere di vita devono essere contenuti nei limiti imposti dai principi immutabili, fondati sugli elementi costitutivi e le relazioni essenziali di ogni persona umana: elementi e relazioni che trascendono le contingenze storiche.
Questi principi fondamentali, che la ragione può cogliere, sono contenuti nella «legge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio, nel suo disegno di sapienza e di amore, ordina, dirige e governa l’universo e le vie della società umana. Dio rende partecipe l’uomo di questa sua legge, cosicché l’uomo, sotto la sua guida soavemente provvida, possa sempre meglio conoscere l’immutabile verità».(5) Questa legge è accessibile alla nostra conoscenza.
Leggi immutabili naturali
4. A torto, quindi, molti oggi pretendono che, per servire di regola alle azioni particolari, non si possa trovare né nella natura umana né nella legge rivelata altra norma assoluta e immutabile, se non quella che si esprime nella legge generale della carità e del rispetto della dignità umana. A prova di questa asserzione essi sostengono che nelle cosiddette norme della legge naturale o precetti della sacra Scrittura, non si deve vedere altro che determinate espressioni di una forma di cultura particolare in un certo momento della storia.
Ma, in realtà, la rivelazione divina e, nel suo proprio ordine, la sapienza filosofica, mettendo in rilievo esigenze autentiche della umanità, per ciò stesso manifestano necessariamente l’esistenza di leggi immutabili, inscritte negli elementi costitutivi della natura umana e che si manifestano identiche in tutti gli esseri, dotati di ragione.
Inoltre, Cristo ha istituito la sua chiesa come «colonna e sostegno della verità» (1 Tm 3,15). Con l’assistenza dello Spirito santo, essa conserva incessantemente e trasmette senza errore le verità dell’ordine morale, e interpreta autenticamente non soltanto la legge positiva rivelata, «ma anche i principi dell’ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana»,(6) e che concernono il pieno sviluppo e la santificazione dell’uomo. Ora di fatto, la chiesa, nel corso della sua storia, ha costantemente considerato un certo numero di precetti della legge naturale come aventi valore assoluto e immutabile, e ha visto nella loro trasgressione una contraddizione con la dottrina e lo spirito del vangelo.
5. Poiché l’etica sessuale riguarda certi valori fondamentali della vita umana e della vita cristiana, è pure ad essa che si applica questa dottrina generale. In questo campo esistono principi e norme che la chiesa, senza alcuna esitazione, ha sempre trasmesso nel suo insegnamento, per quanto opposti potessero essere ad essi le opinioni e i costumi del mondo. Questi principi e queste norme non hanno affatto origine da un certo tipo di cultura, ma appunto dalla conoscenza della legge divina e della natura umana. Essi non possono, pertanto, ritenersi superati né messi in dubbio, col pretesto di una nuova situazione culturale.
Sono questi i principi che hanno ispirato i suggerimenti e le direttive del concilio Vaticano II per una educazione e una organizzazione della vita sociale, che tengano debito conto della eguale dignità dell’uomo e della donna, nel rispetto della loro differenza.(7)
Parlando dell’indole sessuata dell’essere umano e della facoltà umana di generare, il concilio ha notato che esse «sono meravigliosamente superiori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita».(8) Poi si è particolarmente dedicato ad esporre i principi e i criteri, che concernono la sessualità umana nel matrimonio e che hanno il loro fondamento nella finalità della sua funzione specifica.
A questo proposito, il concilio dichiara che la bontà morale degli atti propri della vita coniugale, ordinati secondo la mera dignità umana, «non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinata da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona e dei suoi atti e sono destinati a mantenere in un contesto di vero amore l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana».(9)
Queste ultime parole riassumono brevemente la dottrina del concilio – esposta in precedenza con maggior ampiezza della stessa costituzione(10) – circa la finalità dell’atto sessuale e criterio principale della sua moralità: è il rispetto della sua finalità che garantisce l’onestà di questo atto.
Questo stesso principio, che la chiesa attinge alla rivelazione divina e alla propria interpretazione autentica della legge naturale, fonda anche la sua dottrina tradizionale, secondo la quale l’uso della funzione sessuale ha il suo vero senso e la sua attitudine morale soltanto nel matrimonio legittimo.(11)
Rapporti prematrimoniali
6. La presente dichiarazione non intende trattare di tutti gli abusi della facoltà sessuale né di tutto ciò che implica la pratica della castità; essa si propone di richiamare la dottrina della chiesa intorno ad alcuni punti particolari, considerata l’urgente necessità di opporsi a gravi errori e a comportamenti aberranti e largamente diffusi.
7. Molti oggi rivendicano il diritto all’unione sessuale prima del matrimonio, almeno quando una ferma volontà di sposarsi e un affetto, in qualche modo già coniugale nella psicologia dei soggetti, richiedono questo completamento, che essi stimano connaturale; ciò soprattutto quando la celebrazione del matrimonio è impedita dalle circostanze esterne, o se questa intima relazione sembra necessaria perché sia conservato l’amore.
Questa opinione è in contrasto con la dottrina cristiana. secondo la quale ogni atto genitale umano deve svolgersi nel quadro del matrimonio. Infatti, per quanto sia fermo il proposito di coloro che si impegnano in tali rapporti prematuri, resta vero, però, che questi non consentono di assicurare, nella sua sincerità e fedeltà, la relazione interpersonale di un uomo e di una donna e, specialmente di proteggerla dalle fantasie e dai capricci. Ora, è un’unione stabile quella che Gesù ha voluto e che ha restituito alla sua condizione originale, fondata sulla differenza del sesso. «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non separi» (cf. Mt 19,4-6). San Paolo è ancora più esplicito quando insegna che, se celibi e vedovi non possono vivere in continenza non hanno altra scelta che la stabile unione del matrimonio: È meglio sposarsi che ardere» (1 Cor 7,9). Col matrimonio, infatti, l’amore dei coniugi è assunto nell’amore irrevocabile che Cristo ha per la chiesa (cf. Ef 5,25-32), mentre l’unione dei corpi nell’impudicizia(12) contamina il tempio dello Spirito santo, quale è divenuto il cristiano. L’unione carnale, dunque, non è legittima se tra l’uomo e la donna non si è instaurata una definitiva comunità di vita.
Ecco ciò che ha sempre inteso e insegnato la chiesa,(13) trovando, peraltro, nella riflessione degli uomini e nelle lezioni della storia un accordo profondo con la sua dottrina.
L’esperienza ci insegna che, affinché l’unione sessuale possa rispondere veramente alle esigenze della finalità, che le è propria dell’umana dignità, l’amore deve trovare la sua salvaguardia nella stabilità del matrimonio. Queste esigenze richiedono un contratto matrimoniale sancito e garantito dalla società, tale da instaurare uno stato di vita di capitale importanza, sia per l’unione esclusiva dell’uomo e della donna, sia anche per il bene della loro famiglia e della comunità umana. Il più delle volte, infatti, accade che le relazioni prematrimoniali escludono la prospettiva della prole. Ciò che viene presentato come un amore coniugale non potrà, come dovrebbe essere, espandersi in un amore paterno e materno; oppure, se questo avviene, risulterà a detrimento della prole, che sarà privata dell’ambiente stabile, nel quale dovrebbe svilupparsi per poter in esso trovare la via e i mezzi per il suo inserimento nell’insieme della società.
Il consenso che si scambiano le persone, che vogliono unirsi in matrimonio, deve, perciò, essere esternamente manifestato e in modo che lo renda valido dinanzi alla società. Quanto ai fedeli, è secondo le leggi della chiesa che essi devono esprimere il loro consenso all’instaurazione di una comunità di vita coniugale, consenso che farà del loro matrimonio un sacramento di Cristo.
Relazioni omosessuali
8. Ai nostri giorni, contro l’insegnamento costante del magistero e il senso morale del popolo cristiano, alcuni, fondandosi su osservazioni di ordine psicologico, hanno cominciato a giudicare con indulgenza, anzi a scusare del tutto, le relazioni omosessuali presso certi soggetti. Essi distinguono – e sembra non senza motivo – tra gli omosessuali la cui tendenza, derivando da falsa educazione, da mancanza di evoluzione sessuale normale, da abitudine contratta, da cattivi esempi o da altre cause analoghe, è transitoria o, almeno, non incurabile, e gli omosessuali che sono definitivamente tali per una specie di istinto innato o di costituzione patologica, giudicata incurabile.
Ora, per ciò che riguarda i soggetti di questa seconda categoria, alcuni concludono che la loro tendenza è a tal punto naturale da dover ritenere che essa giustifichi, in loro, relazioni omosessuali in una sincera comunione di vita e di amore, analoga al matrimonio, in quanto essi si sentono incapaci di sopportare una vita solitaria.
Certo, nell’azione pastorale, questi omosessuali devono essere accolti con comprensione e sostenuti nella speranza di superare le loro difficoltà personali e il loro disadattamento sociale. La loro colpevolezza sarà giudicata con prudenza; ma non può essere usato nessun metodo pastorale che, ritenendo questi atti conformi alla condizione di quelle persone, accordi loro una giustificazione morale. Secondo l’ordine morale oggettivo, le relazioni omosessuali sono atti privi della loro regola essenziale e indispensabile. Esse sono condannate nella sacra Scrittura come gravi depravazioni e presentate, anzi, come la funesta conseguenza di un rifiuto di Dio.(14) Questo giudizio della Scrittura non permette di concludere che tutti coloro, i quali soffrono di questa anomalia, ne siano personalmente responsabili, ma esso attesta che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati e che, in nessun caso, possono ricevere una qualche approvazione.
Masturbazione
9. Spesso, oggi, si mette in dubbio o si nega espressamente la dottrina tradizionale cattolica, secondo la quale la masturbazione costituisce un grave disordine morale. La psicologia e la sociologia, si dice, dimostrano che, soprattutto tra gli adolescenti, essa è un fenomeno normale dell’evoluzione della sessualità. Non ci sarebbe colpa reale e grave, se non nella misura in cui il soggetto cedesse deliberatamente ad un’auto soddisfazione chiusa in se stessa («ipsazione»), perché in tal caso l’atto sarebbe radicalmente contrario a quella comunione amorosa tra persone di diverso sesso, che secondo certuni sarebbe quel che principalmente si cerca nell’uso della facoltà sessuale.
Questa opinione è contraria alla dottrina e alla pratica pastorale della chiesa cattolica. Quale che sia il valore di certi argomenti d’ordine biologico o filosofico, di cui talvolta si sono serviti i teologi, di fatto sia il magistero della chiesa – nella linea di una tradizione costante -, sia il senso morale dei fedeli hanno affermato senza esitazione che la masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato.(15) La ragione principale è che, qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà sessuale, al di fuori dei rapporti coniugali normali, contraddice essenzialmente la sua finalità. A tale uso manca, infatti, la relazione sessuale richiesta dall’ordine morale, quella che realizza, «in un contesto di vero amore, l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana».(16) Soltanto a questa relazione regolare dev’essere riservato ogni esercizio deliberato sulla sessualità. Anche se non si può stabilire con certezza che la Scrittura riprova questo peccato con una distinta denominazione, la tradizione della chiesa ha giustamente inteso che esso veniva condannato nel nuovo testamento, quando questo parla di «impurità», di «impudicizia», o di altri vizi, contrari alla castità e alla continenza.
Le inchieste sociologiche possono indicare la frequenza questo disordine secondo i luoghi, la popolazione o le circostanze prese in considerazione; si rilevano così dei fatti. Ma i fatti non costituiscono un criterio che permette di giudicare del valore morale degli atti umani.(17) La frequenza del fenomeno in questione è, certo, da mettere in rapporto con l’innata debolezza dell’uomo in conseguenza del peccato originale, ma anche con la perdita del senso di Dio, la depravazione dei costumi, generata dalla commercializzazione del vizio, la sfrenata licenza di tanti spettacoli e di pubblicazioni, come anche con l’oblio del pudore, custode della castità.
La psicologia moderna offre, in materia di masturbazione, parecchi dati validi e utili, per formulare un giudizio più equo sulla responsabilità morale e per orientare l’azione pastorale. Essa aiuta a vedere come l’immaturità dell’adolescenza, che può talvolta prolungarsi oltre questa età, lo squilibrio psichico, o l’abitudine contratta possano influire sul comportamento, attenuando il carattere deliberato dell’atto, e far sì che, soggettivamente, non ci sia sempre colpa grave. Tuttavia, in generale, l’assenza di grave responsabilità non deve essere presunta; ciò significherebbe misconoscere la capacità morale delle persone.
Nel ministero pastorale, per formarsi un giudizio adeguato nei casi concreti, sarà preso in considerazione, nella sua totalità, il comportamento abituale delle persone, non soltanto per ciò che riguarda la pratica della carità e della giustizia, ma anche circa la preoccupazione di osservare il precetto particolare della castità. Si vedrà, specialmente, se si fa ricorso ai mezzi necessari, naturali e soprannaturali, che l’ascesi cristiana, nella sua esperienza di sempre, raccomanda per dominare le passioni e far progredire la virtù.
Opzione fondamentale
10. Il rispetto della legge morale, nel campo della sessualità, come anche la pratica della castità, sono compromessi non poco soprattutto presso i cristiani meno ferventi, dall’attuale tendenza a ridurre all’estremo – quando addirittura non è negata – la realtà del peccato grave, almeno nell’esistenza concreta degli uomini.
Certuni arrivano fino ad affermare che il peccato mortale, che separa l’uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto diretto e formale, col quale ci si oppone all’appello di Dio, o nell’egoismo che, completamente e deliberatamente, esclude l’amore del prossimo. E allora soltanto, dicono, che ci sarebbe l’«opzione fondamentale», cioè la decisione che impegna totalmente la persona e che sarebbe richiesta per costituire un peccato mortale; per mezzo di essa l’uomo, dall’intimo della sua personalità, assumerebbe o ratificherebbe un atteggiamento fondamentale nei riguardi di Dio e degli uomini. Al contrario, le azioni chiamate «periferiche» (che – si dice – non implicano, in generale, una scelta decisiva) non arriverebbero a modificare l’opzione fondamentale, tanto più che esse procedono spesso – si osserva – dall’abitudine. Esse possono, dunque, indebolire l’opzione fondamentale, ma non modificarla del tutto. Ora, secondo questi autori, un mutamento dell’opzione fondamentale verso Dio avviene più difficilmente nel campo dell’attività sessuale, dove, in generale, l’uomo non trasgredisce l’ordine morale in maniera pienamente deliberata e responsabile, ma piuttosto sotto l’influenza della sua passione, della sua fragilità o immaturità e, talvolta, anche dell’illusione di testimoniare così il suo amore per il prossimo; al che spesso si aggiunge la pressione dell’ambiente sociale.
In realtà è, sì, l’opzione fondamentale che definisce, in ultima analisi, la disposizione morale dell’uomo; ma essa può essere radicalmente modificata da atti particolari, specialmente se questi sono preparati – come spesso accade – da atti anteriori più superficiali. In ogni caso, non è vero che uno solo di questi atti particolari non possa esser sufficiente perché si commetta peccato mortale.
Secondo la dottrina della chiesa, il peccato mortale che si oppone a Dio non consiste soltanto nel rifiuto formale e diretto del comandamento della carità; esso è ugualmente in questa opposizione all’autentico amore, inclusa in ogni trasgressione deliberata, in materia grave, di ciascuna delle leggi morali.
Cristo stesso ha indicato il duplice comandamento dell’amore quale fondamento della vita morale; ma da questo comandamento «dipende tutta la legge e i profeti» (Mt 22,40): esso dunque comprende gli altri precetti particolari. Di fatto, al giovane che gli domandava: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Gesù rispose: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti:… non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,16-19).
L’uomo pecca, dunque, mortalmente non soltanto quando il suo atto procede dal disprezzo diretto di Dio e del prossimo, ma anche quando coscientemente e liberamente, per un qualsiasi motivo, egli compie una scelta il cui oggetto è gravemente disordinato. In questa scelta, infatti, come è stato detto sopra, è già incluso il disprezzo del comandamento divino: l’uomo si allontana da Dio e perde la carità. Ora, secondo la tradizione cristiana e la dottrina della chiesa, e come riconosce anche la retta ragione, l’ordine morale della sessualità comporta per la vita umana valori così alti, che ogni violazione diretta di quest’ordine è oggettivamente grave.(18)
È vero che nelle colpe di ordine sessuale, visto il loro genere e le loro cause, avviene più facilmente che non sia pienamente dato un libero consenso, e questo suggerisce di esser prudenti e cauti nel dare un giudizio circa la responsabilità del soggetto. Qui, in particolare, è il caso di richiamare le parole della Scrittura: «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1 Sam 16,7). Tuttavia, raccomandare una tale prudenza di giudizio circa la gravità soggettiva di un atto peccaminoso particolare non significa affatto che si debba ritenere che, nel campo sessuale, non si commettano peccati mortali.
I pastori devono, dunque, dar prova di pazienza e di bontà; ma non è loro permesso né di rendere vani i comandamenti di Dio, né di ridurre oltre misura la responsabilità delle persone. «Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l’esempio nel trattare con gli uomini. Venuto non per giudicare ma per salvare, Egli fu certo intransigente con il male, ma misericordioso verso le persone».(19)
La virtù della castità
11. Come è stato detto sopra, la presente dichiarazione intende attirare, nelle presenti circostanze, l’attenzione dei fedeli su certi errori e comportamenti dai quali si devono guardare. La virtù della castità non si limita, però, ad evitare le colpe indicate; essa implica, altresì, esigenze positive e più alte. E una virtù che dà una impronta a tutta la personalità, nel suo comportamento sia interiore che esteriore.
Essa deve distinguere le persone, nei loro differenti stati di vita: le une, nella verginità o nel celibato consacrato, un modo eminente di dedicarsi più facilmente a Dio solo, con cuore indiviso;(20) le altre, nella maniera, quale è determinata per tutti dalla legge morale e secondo che siano sposate o celibi. Tuttavia, in ogni stato di vita, la castità non si riduce a un atteggiamento esteriore: essa deve rendere puro il cuore dell’uomo, secondo la parola di Cristo: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28).
La castità è compresa in quella continenza che Paolo annovera tra i doni dello Spirito santo, mentre condanna la lussuria come un vizio particolarmente indegno del cristiano e che esclude dal regno dei cieli (cf. Gal 5,19-23; 1 Cor 6,9-11). «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello… Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito» (1 Ts 4,3-8; cf. Col 3,5-7; 1 Tm 1,10). «Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi… Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro – che è roba da idolatri – avrà parte al regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi inganni con vani ragionamenti: per queste cose infatti piomba l’ira di Dio sopra coloro che gli resistono. Non abbiate quindi niente in comune con loro. Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce» (Ef 5,3-8; cf. 4,18-19).
L’apostolo, inoltre, precisa la ragione propriamente cristiana di praticare la castità, quando condanna il peccato di fornicazione non soltanto nella misura in cui quest’azione fa torto al prossimo o all’ordine sociale, ma perché il fornicatore offende Cristo, che lo ha riscattato con il suo sangue e di cui egli è membro, e lo Spirito santo, di cui egli è tempio: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?… Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impudicizia, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo» (1 Cor 6,15.18-19).
Quanto più i fedeli comprenderanno il valore della castità e la sua necessaria funzione nella loro vita di uomini e di donne, quanto più avvertiranno, per una sorta d’istinto spirituale, ciò che questa virtù esige e suggerisce, tanto meglio essi sapranno anche accettare e compiere, docili all’insegnamento della chiesa, ciò che la retta coscienza detterà loro nei casi concreti.
12. L’apostolo san Paolo descrive in termini drammatici il doloroso conflitto, nell’interno dell’uomo schiavo del peccato, tra la «legge della sua mente» e la «legge della carne nelle sue membra», che lo tiene prigioniero (cf. Rm 7,23). Ma l’uomo può ottenere d’esser liberato dal suo «corpo di morte» mediante la grazia di Gesù Cristo (cf. Rm 7,24-25). Di questa grazia godono gli uomini che essa stessa ha reso giusti, coloro che la legge dello Spirito, che dà la vita in Cristo, ha liberato dalla legge del peccato e dalla morte (Rm 8,2). Perciò, l’apostolo li scongiura: «Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri» (Rm 6,12).
Questa liberazione, pur rendendo idonei a servire Dio in novità di vita, non sopprime la concupiscenza che proviene del peccato originale, né gli incitamenti al male di un «mondo che giace sotto il potere del maligno» (1 Gv 5,19). Perciò l’Apostolo incoraggia i fedeli a superare le tentazioni con la forza di Dio (cf.1 Cor 10,13) «e a resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11) mediante la fede, la preghiera vigilante (cf. Ef 6,16.18) e una austerità di vita che riduce il corpo a servizio dello Spirito (cf. 1 Cor 9,27).
Vivere la vita cristiana sulle orme di Cristo richiede che ciascuno «rinneghi se stesso e prenda la sua croce ogni giorno» (Lc 9,23), se sorretto dalla speranza della ricompensa: «Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo» (2 Tm 2,11-12).
Nella linea di questi insistenti inviti, i fedeli anche nel nostro tempo, anzi oggi più che mai, devono adottare i mezzi, che sono stati sempre raccomandati dalla chiesa per vivere una vita casta: la disciplina dei sensi e dello spirito, la vigilanza e la prudenza nell’evitare le occasioni di peccato, la custodia del pudore, la moderazione nei divertimenti, le sane occupazioni, il frequente ricorso alla preghiera e ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia. I giovani, soprattutto, devono preoccuparsi sviluppare la loro pietà verso l’immacolata Madre di Dio e proporsi, come esempio da imitare, la vita dei santi e degli altri fedeli, specialmente dei giovani, che si sono distinti nella pratica della castità.
Occorre, in particolare, che tutti abbiano un’alta idea della virtù della castità, della sua bellezza e del suo rifulgente splendore. Essa onora l’essere umano e lo rende capace di un amore vero, disinteressato, generoso e rispettoso degli altri.
13. È compito dei vescovi insegnare ai fedeli la dottrina morale concernente la sessualità, quali che siano le difficoltà che l’adempimento di questo compito incontra di fronte alle idee e ai costumi oggi diffusi. Questa dottrina tradizionale sarà approfondita, espressa in maniera adatta a illuminare le coscienze dinanzi alle nuove situazioni che si sono create, e arricchita con discernimento da ciò che può esser detto di vero e di utile circa il significato e il valore della sessualità umana. Mai principi e le norme di vita morale, che sono stati confermati nella presente dichiarazione, devono essere fedelmente ritenuti e insegnati. Si tratta, in particolare, di far capire ai fedeli che la chiesa non li mantiene come inveterati «tabù», né in forza di qualche pregiudizio manicheo, come spesso si pretende, ma perché sa con certezza che essi corrispondono all’ordine divino della creazione e allo spirito di Cristo e, dunque, anche alla dignità umana.
Missione dei vescovi è, altresì, quella di vigilare perché nelle facoltà di teologia e nei seminari sia esposta la sana dottrina alla luce e sotto la guida del magistero della chiesa. Essi devono, parimenti, avere cura che i confessori illuminino le coscienze e che l’insegnamento catechistico sia impartito in perfetta fedeltà alla dottrina cattolica.
Ai vescovi, ai sacerdoti e ai loro collaboratori spetta di mettere in guardia i fedeli contro le opinioni erronee, spesso proposte nei libri, nelle riviste e in pubblici convegni.
I genitori per primi, come anche gli educatori della gioventù, si sforzeranno di condurre, mediante un’educazione integrale, i loro figli e i loro allievi alla maturità psicologica, affettiva e morale quale conviene alla loro età. Essi daranno loro, a questo scopo, un’informazione prudente e adatta alla loro volontà ai costumi cristiani non soltanto con i consigli, ma soprattutto con l’esempio della loro propria vita, con l’aiuto di Dio ottenuto mediante la preghiera. Sapranno anche proteggerli dai tanti pericoli che i giovani neppure sospettano.
Gli artisti, gli scrittori e tutti coloro i quali dispongono degli strumenti di comunicazione sociale, devono esercitare la loro professione in accordo con la loro fede cristiana, coscienti della enorme influenza che essi possono esercitare. Essi devono ricordare che «il primato dell’ordine morale oggettivo deve essere rispettato assolutamente da tutti»,(21) e che non è lecito preferirgli un preteso fine estetico, un vantaggio materiale o il successo. Si tratti di creazione artistica o letteraria, di spettacoli o di informazioni, ciascuno, nel proprio campo, darà prova di tatto, di discrezione, di moderazione e di un giusto senso dei valori. In tal modo, lungi dall’aumentare la crescente licenza dei costumi, essi contribuiranno a frenarla, e a risanare anche il clima morale della società.
Da parte loro, tutti i fedeli laici, in virtù del loro diritto e del loro dovere d’apostolato, si faranno premura di agire nello stesso senso.
È conveniente, infine, ricordare a tutti queste parole del concilio Vaticano II: «Il sacro concilio dichiara che i fanciulli e i giovani hanno il diritto di essere stimolati sia a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali, sia a conoscere e ad amare Dio più perfettamente; perciò chiede con insistenza a quanti governano i popoli o presiedono all’educazione, di preoccuparsi perché mai la gioventù venga privata di questo sacro diritto».(22)
Il sommo pontefice Paolo VI, nell’udienza accordata al sottoscritto prefetto della congregazione per la dottrina della fede il 7 novembre 1975, ha ratificato e confermato questa dichiarazione circa alcune questioni di etica sessuale, ordinandone la pubblicazione.

Roma, palazzo della Congregazione per la dottrina delle fede, 29 dicembre 1975.

Franjo card. ŠEPER, prefetto
Jérôme HAMER o.p., arciv. tit. di Lorium, segretario
NOTE
(1) SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE Dichiarazione Persona Humana circa alcune questioni di etica sessuale, 29 dicembre 1975: AAS 68(1976) (testo originale latino); EV 5/1717-1745 (testo bilingue).
(2) Cf. Gaudium et spes, 47: nn. 9-10; EV 1/1469.
3 Cf. Cost. ap. Regimini ecclesiae universae. 15.8.1967, n. 29: EV 2/1569.
(4) Cf. Gaudium et spes, 16: EV 1/1369.
(5) Dignitatis humanae, 3: EV 1/1047.
(6) Dignitatis humanae, 14: EV 1/1080; cf. Pio XI, Enc. Casti connubii, 31.12.1930: AAS 22(1930), 579-580; EE 5/552s; Pio XII, Allocuzione 2.11.1954: AAS 46(1954), 671-672; GIOVANNI XXIII, Enc. Mater et magistra, 15.5.1961: AAS 53(1961 ), 457; EE 7/457; Paolo VI, Enc. Humanae vitae, 25.7.1968, n. 4: n. 40-42; EV 3/591.
(7) Cf. Gravissimum educationis, 1 e 8: EV 1/822.839; Gaudium et spes, 29, 60, 67: EV 1/1410.1519.1547.
(8) Cf. Gaudium et spes, 51: n. 23; EV 1/1483.
(9) Cf. Gaudium et spes, 51: n. 23; EV 1/1483; cf. anche n. 49: n. 15-16; EV 1/1475s.
(10) Cf. Gaudium et spes, 49 e 50: nn. 15-20; EV 1/1475-1480.
(11) La presente Dichiarazione non comprende tutte le norme morali sulla vita sessuale nel matrimonio, essendo queste egregiamente esposte nelle lettere encicliche Casti connubii e Humanae vitae.
(12) Il rapporto sessuale extramatrimoniale viene espressamente condannato in 1 Cor 5,1-6.9; 7,2; 10,8; Ef 5,5-7; 1 Tm 1,10; Eb 13,4; e con argomentazioni chiare: 1 Cor 6,12-20.
(13) Cf. INNOCENZO IV, Ep. Sub catholicae professione, 6.3.1254: Denz 835; Pio II, Proposizioni condannate nella lettera Cum sicut accepimus, 14.11.1459: Denz 1367; Sant’Offizio, Decreti del 24.9.1665 e 2.3.1679: Denz 2045 e 2148; Pio XI. Enc. Casti connubii, 31.12.1930: 22(1930), 558-559; EE 5/497-499.
(14) Rm 1,24-27: «Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in sé stessi la punizione che si addiceva al loro traviamento». Cf. anche quello che Paolo dice a proposito degli uomini sodomiti e pervertiti in 1 Cor 6,10 e 1 Tm 1,10.
(15) Cf. LEONE IX, Ep. Ad splendidum nitentis, a. 1054: Denz 687-688; Sant’Offizio, Decreto del 2.3.1679: Denz 2149; Pio XII, Allocuzioni dell’8 ottobre 1953 e del 19 maggio 1956: AAS 45(1953), 677s e 58(1956), 472s.
(16) Gaudium et spes, 51: n. 23; EV 1/1483.
(17) «Se le inchieste sociologiche ci sono utili per meglio conoscere la mentalità dell’ambiente, le preoccupazioni e le necessità di coloro ai quali annunciamo la parola di Dio, come pure le resistenze che le oppone l’umana ragione nell’età moderna, con l’idea largamente diffusa che non esisterebbe, fuori della scienza, alcuna forma legittima di sapere, le conclusioni di tali inchieste non potrebbero costituire di per se stesse un criterio determinante di verità» (Paolo VI, Esort. apost. Quinque iam anni, 8.12.1970: EV 3/2883 ).
(18) Cf, sopra le note 13 e 15: Sant’ Offizio, Decreto del 18 marzo 1666: Denz 2060; PAOLO VI, Enc. Humanae vitae, nn. 13 e 14: nn. 65-69; EV 3/599s.
(19) PAOLO VI, Enc. Humanae vitae, n. 29: nn. 95; EV 3/615.
(20) Cf. 1 Cor 7,7.34; Conc. Di Trento, sess. 24, can. 10: Denz 1810; CONC. Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, 42, 43, 44: EV 1/397-407; Sinodo dei Vescovi 1971, Il sacerdozio ministeriale, parte II, 4 b: EV 4/1211.
(21) Conc. Vaticano II. Decreto Inter mirifica, 6: EV 1/254.
(22) Conc. Vaticano II, Dich. Gravissimum educationis, 1: EV 1/824.

Humanae vitae

HUMANAE VITAE – LETTERA ENCICLICA DEL SOMMO PONTEFICE PAOLO PP. VI
0. INTRODUZIONE
1. Il gravissimo dovere di trasmettere la vita umana, per il quale gli sposi sono liberi e responsabili collaboratori di Dio creatore, è sempre stato per essi fonte di grandi gioie, le quali, tuttavia, sono talvolta accompagnate da non poche difficoltà e angustie. In tutti i tempi l’adempimento di questo dovere ha posto alla coscienza dei coniugi seri problemi, ma col recente evolversi della società, si sono prodotti mutamenti tali da far sorgere nuove questioni, che la chiesa non può ignorare, trattandosi di materia che tanto da vicino tocca la vita e la felicità degli uomini.

I. ASPETTI NUOVI DEL PROBLEMA E COMPETENZA DEL MAGISTERO
2. I cambiamenti avvenuti sono infatti di grande importanza e di vario genere. Si tratta anzitutto del rapido sviluppo demografico, per il quale molti manifestano il timore che la popolazione mondiale cresca più rapidamente delle risorse a disposizione, con crescente angustia di tante famiglie e di popoli in via di sviluppo. Per questo è grande la tentazione delle autorità di opporre a tale pericolo misure radicali. Inoltre, non solo le condizioni di lavoro e di alloggio, ma anche le accresciute esigenze, sia nel campo economico che in quello della educazione della gioventù, rendono spesso oggi difficile il sostentamento conveniente di un numero elevato di figli. Si assiste anche a un mutamento, oltre che nel modo di considerare la persona della donna e il suo posto nella società, anche nel valore da attribuire all’amore coniugale nel matrimonio, e nell’apprezzamento da dare al significato degli atti coniugali in relazione con questo amore. Infine, questo soprattutto si deve considerare, che l’uomo ha compiuto progressi stupendi nel dominio e nell’organizzazione razionale delle forze della natura, così che si sforza di estendere questo dominio al suo stesso essere globale; al corpo, alla vita psichica, alla vita sociale, e perfino alle leggi che regolano la trasmissione della vita.
3. Tale stato di cose fa sorgere nuove domande. Se, date le condizioni della vita odierna e dato il significato che le relazioni coniugali hanno per l’armonia tra gli sposi e per la loro mutua fedeltà, non sia forse indicata una revisione delle norme etiche finora vigenti, soprattutto se si considera che esse non possono essere osservate senza sacrifici talvolta eroici. Ancora: se estendendo a questo campo l’applicazione del cosiddetto ” principio di totalità “, non si possa ammettere che l’intenzione di una fecondità meno esuberante, ma più razionalizzata, trasforma l’intervento materialmente sterilizzante in una lecita e saggia regolazione della natalità. Se non si possa ammettere cioè che la finalità procreativa appartenga all’insieme della vita coniugale, piuttosto che ai suoi singoli atti. Si chiede anche se, dato l’accresciuto senso di responsabilità dell’uomo moderno, non sia venuto per lui il momento di affidare alla sua ragione e alla sua volontà, più che ai ritmi biologici del suo organismo, il compito di trasmettere la vita.
4. Tali questioni esigevano dal magistero della chiesa una nuova approfondita riflessione sui principi della dottrina morale del matrimonio: dottrina fondata sulla legge naturale illuminata e arricchita dalla rivelazione divina. Nessun fedele vorrà negare che al magistero della chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale. È infatti incontestabile, come hanno più volte dichiarato i nostri predecessori, che Gesù Cristo, comunicando a Pietro e agli apostoli la sua divina autorità e inviandoli a insegnare a tutte le genti i suoi comandamenti, li costituiva custodi e interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale. Infatti anche la legge naturale è espressione della volontà di Dio, l’adempimento fedele di essa è parimenti necessario alla salvezza eterna degli uomini. Conformemente a questa sua missione, la chiesa ha dato sempre, ma più ampiamente nel tempo recente, un adeguato insegnamento sia sulla natura del matrimonio sia sul retto uso dei diritti coniugali e sui doveri dei coniugi.
5. La coscienza della medesima missione ci indusse a confermare e allargare la commissione di studio che il nostro predecessore Giovanni XXIII, di v.m., aveva costituito nel marzo del 1963. Questa commissione, che comprendeva, oltre a parecchi studiosi delle varie discipline pertinenti, anche coppie di sposi, non solo aveva per scopo di raccogliere pareri sulle nuove questioni riguardanti la vita coniugale, e in particolare una retta regolazione della natalità, ma anche di fornire gli elementi di informazione opportuni, perché il magistero della chiesa potesse dare una risposta adeguata all’attesa non soltanto dei fedeli, ma dell’opinione pubblica mondiale. I lavori di questi esperti, nonché i giudizi e i consigli successivi di un buon numero dei nostri fratelli nell’episcopato, o spontaneamente inviati o da noi richiesti, ci hanno permesso di meglio misurare tutti gli aspetti del complesso argomento. Pertanto di gran cuore esprimiamo a tutti la nostra vivissima gratitudine.
6. Le conclusioni alle quali era pervenuta la commissione non potevano tuttavia essere da noi considerate come certe e definitive, né dispensarci da un personale esame di tanto grave questione; anche perché non si era giunti, in seno alla commissione, alla piena concordanza di giudizi circa le norme morali da proporre, e soprattutto perché erano emersi alcuni criteri di soluzioni, che si distaccavano dalla dottrina morale sul matrimonio proposta con costante fermezza dal magistero della chiesa. Perciò, avendo attentissimamente vagliato la documentazione a noi offerta, dopo mature riflessioni e assidue preghiere, intendiamo ora, in virtù del mandato da Cristo a noi affidato, dare la nostra risposta a queste gravi questioni.

II. PRINCIPI DOTTRINALI
Una visione globale dall’uomo
7. Il problema della natalità, come ogni altro problema riguardante la vita umana, va considerato, al di là delle prospettive parziali – siano di ordine biologico o psicologico, demografico o sociologico – nella luce di una visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna. E poiché, nel tentativo di giustificare i metodi artificiali di controllo delle nascite, da molti si è fatto appello alle esigenze, sia dell’amore coniugale, sia di una paternità responsabile, conviene chiarire e precisare accuratamente la vera concezione di queste due grandi realtà della vita matrimoniale, richiamandoci principalmente a quanto è stato esposto recentemente a questo riguardo, con somma autorità, dal Concilio Vaticano II, nella costituzione pastorale Gaudium et spes.
L’amore coniugale
8. L’amore coniugale rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è “Amore”, che è il Padre ” da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome “. Il matrimonio non è quindi effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali: è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite. Per i battezzati, poi, il matrimonio riveste la dignità di segno sacramentale della grazia, in quanto rappresenta l’unione di Cristo e della chiesa.
Le caratteristiche dell’amore coniugale
9. In questa luce appaiono chiaramente le note e le esigenze caratteristiche dell’amore coniugale, di cui è di somma importanza avere un’idea esatta. È prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale. Non è quindi semplice trasporto di istinto e di sentimento, ma anche e principalmente è atto della volontà libera, destinato non solo a mantenersi, ma anche ad accrescersi mediante le gioie e i dolori della vita quotidiana; così che gli sposi diventino un cuor solo e un’anima sola, e raggiungano insieme la loro perfezione umana. È poi amore totale, vale a dire una forma tutta speciale di amicizia personale, in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa, senza indebite riserve o calcoli egoistici. Chi ama davvero il proprio consorte, non lo ama soltanto per quanto riceve da lui, ma per se stesso, lieto di poterlo arricchire del dono di sé. È ancora amore fedele ed esclusivo fino alla morte. Così infatti lo concepiscono lo sposo e la sposa nel giorno in cui assumono liberamente e in piena consapevolezza l’impegno del vincolo matrimoniale. Fedeltà che può talvolta essere difficile, ma che sia sempre possibile, e sempre nobile e meritoria, nessuno lo può negare. L’esempio di tanti sposi attraverso i secoli dimostra non solo che essa è consentanea alla natura del matrimonio, ma altresì che da essa, come da una sorgente, scaturisce una intima e duratura felicità. È infine amore fecondo, che non si esaurisce tutto nella comunione dei coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite. “Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio e contribuiscono moltissimo al bene degli stessi genitori”.
La paternità responsabile
10. Perciò l’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. Essa deve considerarsi sotto diversi aspetti legittimi e tra loro collegati. In rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa conoscenza e rispetto delle loro funzioni: l’intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che riguardano la persona umana. In rapporto alle tendenze dell’istinto e delle passioni, la paternità responsabile significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare su di esse. In rapporto alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali, la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita. Paternità responsabile comporta ancora e soprattutto un più profondo rapporto all’ordine morale chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è vera interprete. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori. Nel compito di trasmettere la vita, essi non sono quindi liberi di procedere a proprio arbitrio, come se potessero determinare in modo del tutto autonomo le vie oneste da seguire, ma, al contrario, devono conformare il loro agire all’intenzione creatrice di Dio, espressa nella stessa natura del matrimonio e dei suoi atti, e manifestata dall’insegnamento costante della chiesa.
Rispettare la natura e la finalità dell’atto matrimoniale
11. Questi atti, con i quali gli sposi si uniscono in casta intimità e per mezzo dei quali si trasmette la vita umana, sono, come ha ricordato il recente concilio, “onesti e degni”, e non cessano di essere legittimi se, per cause mai dipendenti dalla volontà dei coniugi, sono previsti infecondi, perché rimangono ordinati ad esprimere e consolidare la loro unione. Infatti, come l’esperienza attesta, non da ogni incontro coniugale segue una nuova vita. Dio ha sapientemente disposto leggi e ritmi naturali di fecondità che già di per sé distanziano il susseguirsi delle nascite. Ma, richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale, interpretata dalla sua costante dottrina, la chiesa insegna che qualsiasi: atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita.
Inscindibili due aspetti: unione e procreazione
12. Tale dottrina, più volte esposta dal magistero della chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. Infatti, per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità. Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare quanto questa dottrina sia consentanea alla ragione umana.
Fedeltà al disegno di Dio
13. Giustamente infatti si avverte che un atto coniugale imposto al coniuge senza nessun riguardo alle sue condizioni ed ai suoi giusti desideri non è un vero atto di amore e nega pertanto un’esigenza del retto ordine morale nei rapporti tra gli sposi. Così, chi ben riflette dovrà anche riconoscere che un atto di amore reciproco, che pregiudichi la disponibilità a trasmettere la vita che Dio creatore di tutte le cose secondo particolari leggi vi ha immesso, è in contraddizione sia con il disegno divino, a norma del quale è costituito il coniugio, sia con il volere dell’Autore della vita umana. Usare di questo dono divino distruggendo, anche soltanto parzialmente, il suo significato e la sua finalità è contraddire alla natura dell’uomo come a quella della donna e del loro più intimo rapporto, e perciò è contraddire anche al piano di Dio e alla sua santa volontà. Usufruire invece del dono dell’amore coniugale rispettando le leggi del processo generativo, significa riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri del disegno stabilito dal creatore. Infatti, come sul suo corpo in generale l’uomo non ha un dominio illimitato, così non lo ha, con particolare ragione, sulle sue facoltà generative in quanto tali, a motivo della loro ordinazione intrinseca a suscitare la vita, di cui Dio è principio. ” La vita umana è sacra, ricordava Giovanni XXIII; fin dal suo affiorare impegna direttamente l’azione creatrice di Dio “.
Vie illecite per la regolazione della natalità
14. In conformità con questi principi fondamentali della visione umana e cristiana sul matrimonio, dobbiamo ancora una volta dichiarare che è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite, l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto diretto, anche se procurato per ragioni terapeutiche. È parimenti da condannare, come il magistero della chiesa ha più volte dichiarato, la sterilizzazione diretta, sia perpetua che temporanea, tanto dell’uomo che della donna. È altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione. Né, a giustificazione degli atti coniugali resi intenzionalmente infecondi, si possono invocare, come valide ragioni: che bisogna scegliere quel male che sembri meno grave o il fatto che tali atti costituirebbero un tutto con gli atti fecondi che furono posti o poi seguiranno, e quindi ne condividerebbero l’unica e identica bontà morale. In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali. È quindi errore pensare che un atto coniugale, reso volutamente infecondo, e perciò intrinsecamente non onesto, possa essere coonestato dall’insieme di una vita coniugale feconda.
Liceità dei mezzi terapeutici
15. La chiesa, invece, non ritiene affatto illecito l’uso dei mezzi terapeutici necessari per curare malattie dell’organismo, anche se ne risultasse un impedimento, pur previsto, alla procreazione, purché tale impedimento non sia, per qualsiasi motivo, direttamente voluto.
Liceità del ricorso ai periodi infecondi
16. A questo insegnamento della chiesa sulla morale coniugale, si obietta oggi, come osservavamo sopra (n. 3), che è prerogativa dell’intelligenza umana dominare le energie offerte dalla natura irrazionale e orientarle verso un fine conforme al bene dell’uomo. Ora, alcuni si chiedono: nel caso presente, non è forse razionale, in circostanze così complesse, ricorrere al controllo artificiale delle nascite, se con ciò si ottiene l’armonia e la quiete della famiglia e migliori condizioni per l’educazione dei figli già nati? A questo quesito occorre rispondere con chiarezza: la chiesa è la prima a elogiare e a raccomandare l’intervento dell’intelligenza in un’opera che così da vicino associa la creatura ragionevole al suo creatore, ma afferma che ciò si deve fare nel rispetto dell’ordine da Dio stabilito. Se dunque per distanziare le nascite esistono seri motivi, derivanti dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori, la chiesa insegna essere allora lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio nei soli periodi infecondi e così regolare la natalità senza offendere minimamente i principi morali che abbiamo ora ricordato. La chiesa è coerente con se stessa, sia quando ritiene lecito il ricorso ai periodi infecondi, sia quando condanna come sempre illecito l’uso dei mezzi direttamente contrari alla fecondazione, anche se ispirato da ragioni che possano apparire oneste e gravi. Infatti, i due casi differiscono completamente tra di loro: nel primo caso i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell’altro caso essi impediscono lo svolgimento dei processi naturali. È vero che, nell’uno e nell’altro caso, i coniugi concordano con mutuo e certo consenso di evitare la prole per ragioni plausibili, cercando la sicurezza che essa non verrà; ma è altresì vero che soltanto nel primo caso essi sanno rinunciare all’uso del matrimonio nei periodi fecondi quando, per giusti motivi, la procreazione non è desiderabile, usandone, poi, nei periodi agenesiaci a manifestazione di affetto e a salvaguardia della mutua fedeltà. Così facendo essi danno prova di amore veramente e integralmente onesto.
Gravi conseguenze dei metodi di regolazione artificiale della natalità
17. Gli uomini retti potranno ancora meglio convincersi della fondatezza della dottrina della chiesa in questo campo, se vorranno riflettere alle conseguenze dei metodi di regolazione artificiale delle nascite. Considerino, prima di tutto, quale via larga e facile aprirebbero così alla infedeltà coniugale ed all’abbassamento generale della moralità. Non ci vuole molta esperienza per conoscere la debolezza umana e per comprendere che gli uomini – i giovani specialmente, così vulnerabili su questo punto – hanno bisogno d’incoraggiamento a essere fedeli alla legge morale e non si deve loro offrire qualche facile mezzo per eluderne l’osservanza. Si può anche temere che l’uomo, abituandosi all’uso delle pratiche anticoncezionali, finisca per perdere il rispetto della donna e, senza più curarsi del suo equilibrio fisico e psicologico, arrivi a considerarla come semplice strumento di godimento egoistico e non più come la sua compagna, rispettata e amata. Si rifletta anche all’arma pericolosa che si verrebbe a mettere così tra le mani di autorità pubbliche, incuranti delle esigenze morali. Chi potrà rimproverare a un governo di applicare alla soluzione dei problemi della collettività ciò che fosse riconosciuto lecito ai coniugi per la soluzione di un problema familiare? Chi impedirà ai governanti di favorire e persino di imporre ai loro popoli, ogni qualvolta lo ritenessero necessario, il metodo di contraccezione da essi giudicato più efficace? In tal modo gli uomini, volendo evitare le difficoltà individuali, familiari o sociali che s’incontrano nell’osservanza della legge divina, arriverebbero a lasciare in balia dell’intervento delle autorità pubbliche il settore più personale e più riservato della intimità coniugale. Pertanto, se non si vuole esporre all’arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato, sia rivestito di autorità, è lecito infrangere. E tali limiti non possono essere determinati che dal rispetto dovuto all’integrità del corpo umano e delle sue funzioni naturali secondo i principi sopra ricordati e secondo la retta intelligenza del principio di totalità, illustrato dal nostro Predecessore Pio XII.
La chiesa garante degli autentici valori umani
18. Si può prevedere che questo insegnamento non sarà forse da tutti facilmente accolto: troppe sono le voci, amplificate dai moderni mezzi di propaganda, che contrastano con quella della chiesa. A dir vero, questa non si meraviglia di essere fatta, a somiglianza del suo divin fondatore, ” segno di contraddizione “, ma non lascia per questo di proclamare con umile fermezza tutta la legge morale, sia naturale, che evangelica. Di essa la chiesa non è stata autrice, né può, quindi, esserne arbitra; ne è soltanto depositaria e interprete, senza mai poter dichiarare lecito quel che non lo è, per la sua intima e immutabile opposizione al vero bene dell’uomo. Nel difendere la morale coniugale nella sua integralità, la chiesa sa di contribuire all’instaurazione di una civiltà veramente umana; essa impegna l’uomo a non abdicare alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici; difende con ciò stesso la dignità dei coniugi. Fedele all’insegnamento come all’esempio del Salvatore, essa si dimostra amica sincera e disinteressata degli uomini che vuole aiutare, fin dal loro itinerario terrestre, ” a partecipare come figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini “.
III. DIRETTIVE PASTORALI
La chiesa “madre e maestra”
19. La nostra parola non sarebbe espressione adeguata del pensiero e delle sollecitudini della chiesa, madre e maestra di tutte le genti, se, dopo aver richiamato gli uomini alla osservanza e al rispetto della legge divina riguardante il matrimonio, non li confortasse nella vita di una onesta regolazione della natalità, pur in mezzo alle difficili condizioni che oggi travagliano le famiglie e i popoli. La chiesa, infatti, non può avere altra condotta verso gli uomini da quella del Redentore: conosce la loro debolezza, ha compassione della folla, accoglie i peccatori; ma non può rinunciare a insegnare la legge che in realtà è quella propria di una vita umana restituita nella sua verità originaria e condotta dallo Spirito di Dio.
Possibilità della osservanza della legge divina
20. La dottrina della chiesa sulla regolazione della natalità, che promulga la legge divina, apparirà facilmente a molti di difficile o addirittura impossibile attuazione. E certamente, come tutte le realtà grandi e benefiche, essa richiede serio impegno e molti sforzi, individuali, familiari e sociali. Anzi, non sarebbe attuabile senza l’aiuto di Dio, che sorregge e corrobora la buona volontà degli uomini. Ma a chi ben riflette non potrà non apparire che tali sforzi sono nobilitanti per l’uomo e benefici per la comunità umana.
Padronanza di sé
21. Una retta e onesta pratica di regolazione della natalità richiede anzitutto dagli sposi che acquistino e posseggano solide convinzioni circa i veri valori della vita e della famiglia, e che tendano ad acquistare una perfetta padronanza di sé. Il dominio dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente una ascesi, affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il retto ordine e in particolare per l’osservanza della continenza periodica. Ma questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi al nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano. Esige un continuo sforzo, ma grazie al suo benefico influsso i coniugi sviluppano integralmente la loro personalità, arricchendosi di valori spirituali: essa apporta alla vita familiare frutti di serenità e di pace e agevola la soluzione degli altri problemi; favorisce l’attenzione verso l’altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l’egoismo, nemico del vero amore, e approfondisce il loro senso di responsabilità nel compimento dei loro doveri. I genitori acquistano con essa la capacità di un influsso più profondo ed efficace per l’educazione dei figli; la fanciullezza e la gioventù crescono nella giusta stima dei valori umani e nello sviluppo sereno ed armonico delle loro facoltà spirituali e sensibili.
Creare un ambiente favorevole alla castità
22. Noi vogliamo in questa occasione richiamare l’attenzione degli educatori e di quanti assolvono compiti di responsabilità in ordine al bene comune dell’umana convivenza, sulla necessità di creare un clima favorevole all’educazione della castità, cioè al trionfo della sana libertà sulla licenza, mediante il rispetto dell’ordine morale. Tutto ciò che nei moderni mezzi di comunicazione sociale i alle eccitazioni dei sensi, alla sfrenatezza dei costumi, come pure ogni forma di pornografia o di spettacoli licenziosi, deve suscitare la franca e unanime reazione di tutte le persone sollecite del progresso della civiltà e della difesa dei beni supremi dello spirito umano. Invano si cercherebbe di giustificare queste depravazioni con pretese esigenze artistiche scientifiche o di trarre argomento dalla libertà lasciata in questo settore da parte delle pubbliche autorità.
Appello ai pubblici poteri
23. Ai governanti, che sono i principali responsabili del bene comune e tanto possono per la salvaguardia del costume orale, noi diciamo: non lascino che si degradi la moralità dei loro popoli; non accettino che si introducano in modo legale in quella cellula fondamentale dello stato, che è la famiglia, pratiche contrarie alla legge naturale e divina. Altra è la via mediante la quale i pubblici poteri possono e devono contribuire alla soluzione del problema demografico: è la via di una provvida politica familiare, di una saggia educazione dei popoli, rispettosa della legge morale e della libertà dei cittadini. Siamo ben consapevoli delle gravi difficoltà in cui versano i pubblici poteri a questo riguardo, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Alle loro legittime preoccupazioni abbiamo consacrato la nostra enciclica Populorum progressio. Ma, con il nostro predecessore Giovanni XXIII, ripetiamo: “Queste difficoltà non vanno superate facendo ricorso a metodi e a mezzi che sono indegni dell’uomo e che trovano la loro spiegazione soltanto in una concezione prettamente materialistica dell’uomo stesso e della sua vita. La vera soluzione si trova soltanto nello sviluppo economico e nel progresso sociale, che rispettano e promuovono i veri valori umani individuali e sociali”. Né si potrebbe senza grave ingiustizia rendere la divina Provvidenza responsabile di ciò che dipendesse invece da minore saggezza di governo, da un senso insufficiente della giustizia sociale, da egoistico accaparramento o ancora da biasimevole indolenza nell’affrontare gli sforzi e i sacrifici necessari per assicurare la elevazione del livello di vita di un popolo e di tutti i suoi figli. Che tutti i poteri responsabili – come certuni già fanno così lodevolmente – ravvivino generosamente i loro sforzi. E non cessi di estendersi l’aiuto vicendevole tra tutti i membri della grande famiglia umana: è un campo quasi illimitato che si apre così all’attività delle grandi organizzazioni internazionali.
Agli uomini di scienza
24. Vogliamo ora esprimere il nostro incoraggiamento agli uomini di scienza, i quali ” possono dare un grande contributo al bene del matrimonio e della famiglia e alla pace delle coscienze, se, unendo i loro studi, cercheranno di chiarire più a fondo le diverse condizioni che favoriscono una onesta regolazione della procreazione umana “. È in particolare auspicabile che, secondo l’augurio formulato da Pio XII, la scienza medica riesca a dare una base sufficientemente sicura ad una regolazione delle nascite, fondata sull’osservanza dei ritmi naturali. Così gli uomini di scienza, e in modo speciale gli scienziati cattolici, contribuiranno a dimostrare con i fatti che, come la chiesa insegna, “non vi può essere vera contraddizione tra le leggi divine che reggono la trasmissione della vita e quelle che favoriscono un autentico amore coniugale”.
Agli sposi cristiani
25. E ora la nostra parola si rivolge più direttamente ai nostri figli, particolarmente a quelli che Dio chiama a servirlo nel matrimonio. La chiesa, mentre insegna le esigenze imprescrittibili della legge divina, annunzia la salvezza e apre con i sacramenti le vie della grazia, la quale fa dell’uomo una nuova creatura, capace di corrispondere nell’amore e nella vera libertà al disegno del suo Creatore e Salvatore e di trovare dolce il giogo di Cristo. Gli sposi cristiani, dunque, docili alla sua voce, ricordino che la loro vocazione cristiana iniziata col battesimo si è ulteriormente specificata e rafforzata col sacramento del matrimonio. Per esso i coniugi sono corroborati e quasi consacrati per l’adempimento fedele dei propri doveri, per l’attuazione della propria vocazione fino alla perfezione e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte mondo. Ad essi il Signore affida il compito di rendere visibile agli uomini la santità “e la soavità della legge che unisce l’amore vicendevole degli sposi con la loro cooperazione all’amore di Dio autore della vita umana. Non intendiamo affatto nascondere le difficoltà talvolta gravi inerenti alla vita dei coniugi cristiani: per essi, come per ognuno, è stretta la porta e angusta la via che conduce alla vita “. Ma la speranza di questa vita deve illuminare il loro cammino, mentre coraggiosamente si sforzano di vivere con saggezza, giustizia e pietà nel tempo presente, sapendo che la figura di questo mondo passa. Affrontino quindi gli sposi i necessari sforzi, sorretti dalla fede e dalla speranza che “non delude, perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori con lo Spirito santo, che ci è stato dato”; implorino con perseverante preghiera l’aiuto divino; attingano soprattutto nell’eucaristia alla sorgente della grazia e della carità. E se il peccato facesse ancora presa su di loro, non si scoraggino, ma ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita con abbondanza nel sacramento della penitenza. Essi potranno in tal modo realizzare la pienezza della vita coniugale descritta dall’apostolo: ” Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa (…). I mariti devono amare le loro mogli come il proprio corpo. Amare la moglie, non è forse amare se stesso? Ora nessuno mai ha odiato la propria carne, che anzi la nutre e la cura, come fa Cristo per la chiesa (…). Grande è questo mistero, voglio dire riguardo a Cristo e alla chiesa. Ma per quel che vi concerne, ognuno ami la sua moglie come se stesso e la moglie rispetti il proprio marito “.
Apostolato tra i focolari
26. Tra i frutti che maturano da un generoso sforzo di fedeltà alla legge divina, uno dei più preziosi è che i coniugi stessi non di rado provano il desiderio di comunicare ad altri la loro esperienza. Viene così a inserirsi nel vasto quadro della vocazione dei laici una nuova e notevolissima forma dell’apostolato del simile da parte del simile: sono gli sposi stessi che si fanno apostoli e guide di altri sposi. Questa è senz’altro tra tante forme di apostolato una di quelle che oggi appaiono più opportune.
Ai medici e al personale sanitario
27. Abbiamo in altissima stima i medici e i membri del personale sanitario ai quali, nell’esercizio della loro professione, più di ogni interesse umano, stanno a cuore le superiori esigenze della loro vocazione cristiana. Perseverino dunque nel promuovere in ogni occasione le soluzioni, ispirate alla fede e alla retta ragione, e si sforzino di suscitarne la convinzione e il rispetto nel loro ambiente Considerino poi anche come proprio dovere professionale quello d’acquistare tutta la scienza necessaria in questo delicato settore, al fine di poter dare agli sposi che li consultano i saggi consigli e le sane direttive, che questi da loro a buon diritto aspettano.
Ai sacerdoti
28. Diletti figli sacerdoti, che per vocazione siete i consiglieri e le guide spirituali delle singole persone e delle famiglie, ci rivolgiamo ora a voi con fiducia. Il vostro primo compito – specialmente per quelli che insegnano la teologia morale – è di esporre senza ambiguità l’insegnamento della chiesa sul matrimonio. Siate i primi a dare, nell’esercizio del vostro ministero, l’esempio di un leale ossequio, interno ed esterno, al magistero della chiesa. Tale ossequio, ben lo sapete, obbliga non solo per le ragioni addotte, quanto piuttosto a motivo del lume dello Spirito santo, del quale sono particolarmente dotati i pastori della chiesa per illustrare la verità. Sapete anche che è di somma importanza, per la pace delle coscienze e per l’unità del popolo cristiano, che, nel campo della morale come in quello del dogma, tutti si attengano al magistero della chiesa e parlino uno stesso linguaggio. Perciò con tutto il nostro animo vi rinnoviamo l’accorato appello del grande apostolo Paolo: “Vi scongiuro, fratelli, per il nome di nostro signore Gesù Cristo, abbiate tutti uno stesso sentimento, non vi siano tra voi divisioni, ma siate tutti uniti nello stesso spirito e nello stesso pensiero “.
29. Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo, è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Redentore stesso ha dato l’esempio nel trattare con gli uomini. Venuto non per giudicare, ma per salvare, egli fu certo intransigente con il male, ma paziente e misericordioso verso i peccatori. Nelle loro difficoltà, i coniugi ritrovino sempre nella parola e nel cuore del sacerdote l’eco della voce e dell’amore del Redentore. Parlate poi con fiducia, diletti figli, ben convinti che lo Spirito santo di Dio, mentre assiste il magistero nel proporre la dottrina, illumina internamente i cuori dei fedeli, invitandoli a dare il loro assenso. Insegnate agli sposi la necessaria via della preghiera, e istruiteli convenientemente, affinché ricorrano spesso e con grande fede ai sacramenti dell’eucaristia e della penitenza, e perché mai si scoraggino a motivo della loro debolezza.
Ai vescovi
30. Cari e venerabili fratelli nell’episcopato, con i quali condividiamo più da vicino la sollecitudine del bene spirituale del popolo di Dio, a voi va il nostro pensiero riverente e affettuoso al termine di questa enciclica. A tutti rivolgiamo un pressante invito. A capo dei vostri sacerdoti, cooperatori del sacro ministero, e dei vostri fedeli, lavorate con ardore e senza sosta alla salvaguardia e alla santità del matrimonio, perché sia sempre più vissuto in tutta la sua pienezza umana e cristiana. Considerate questa missione come una delle vostre più urgenti responsabilità nel tempo presente. Essa comporta, come sapete, un’azione pastorale concertata in tutti i campi della attività umana, economica, culturale e sociale: solo infatti un miglioramento simultaneo in questi vari settori permetterà di rendere non solo tollerabile, ma più facile gioconda la vita dei genitori e dei figli in seno alle famiglie, più fraterna e pacifica la convivenza nell’umana società, nella rigorosa fedeltà al disegno di Dio sul mondo.
APPELLO FINALE
31. Venerati fratelli, dilettissimi figli, e voi tutti, uomini di buona volontà, grande è l’opera di educazione, di progresso e di amore alla quale vi chiamiamo, basati sulla fermissima dottrina della chiesa, di cui il successore di Pietro è, con i suoi fratelli nell’episcopato cattolico, fedele depositario e interprete. Opera grande in verità, ne abbiamo l’intima convinzione, per il mondo come per la chiesa, giacché l’uomo non può trovare la vera felicità, alla quale aspira con tutto il suo essere, se non nel rispetto delle leggi iscritte da Dio nella sua natura e che egli deve osservare con intelligenza e amore. Su quest’opera noi invochiamo, come su voi tutti, e in modo speciale sugli sposi, l’abbondanza delle grazie di Dio santissimo e misericordiosissimo, in pegno delle quali vi diamo la nostra benedizione apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro,
nella festa di san Giacomo apostolo,
25 luglio dell’anno 1968,
sesto del nostro pontificato.
PAOLO PP. VI

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