Poesia: La caduta di Bisanzio

Bisanzio è la città dal duplice porto, luogo del passaggio dal piccolo al grande mare, capitale dell’impero romano d’oriente, del quale ha mantenuto l’eredità fino al rinascimento. Bisanzio è la città che ha reso possibile la conservazione e trasmissione di testi imprescindibili per la cultura occidentale: è un crocevia fondamentale per la nostra identità culturale, un punto di passaggio obbligato. Potremmo considerarla come una delle città nelle quali l’Europa pone le sue radici.
Nonostante l’importanza, Alessandro Rivali vuole immaginare questa città, tanto cara all’imperatore Costantino, nei momenti in cui «Era cenere la terra oltre i bastioni, / chiusa la fuga per terra e per acqua». L’immaginazione del poeta rimanda alle ultime ore di vita di questo emblema.

Ma anche i momenti più umilianti non sono la fine: ciò che viene raffigurato dal poeta, infatti, è un viaggio aperto, come quello della vita, con le sue tappe tra i ricordi degli insuccessi e delle speranze. Quello di Rivali è un viaggio nella poesia come nello spazio e nel tempo, dentro e fuori la realtà.

Seguendo le parti della raccolta vengono attraversate Pompei, Bisanzio, Persepoli, Atlantide, simboli di civiltà decadute; dopo aver incontrato Giovanni della Croce si possono visitare l’Eldorado e Sacrari, luoghi in cui l’immaginario è divenuto reale. Infine si può assistere al passaggio dalla terra dei serpenti, la terra della condanna, alla terra di Lamec, il padre di Noè, la terra assegnata agli uomini dopo il giardino dell’eden e prima del diluvio. Un viaggio sicuro perché la destinazione è certa «al termine del deserto / vide colui che fu morto e visse, / che parlava con dolcezza / di cieli e terre e tutte le cose / in luce finalmente nuova.»

L’intera raccolta si può dividere in tre fasi così come sono tre i tempi di ogni coniugazione: presente, passato e futuro (Vita, Mors, Resurrectio). Nel passato individuale e collettivo l’uomo riscopre i propri errori: « Tiberio scelse la parte estrema / Per alzare la Villa di giovedì / e Tacito si dilungò sulla follia, /sulla frana crudele della ragione.» Gli storici, antichi e non, hanno paragonato spesso il passare del tempo a una forza impietosa che fa emergere le contraddittorietà delle civiltà «Erodoto e Strabone / raccontavano di Fenici / discesi dal mar Rosso / e riapparsi come fantasmi / alle porte del Mediterraneo».
Vi è poi il presente, quello della caduta tragica «il porfidio fu frantumato, / le insegne impiegate come aratri.», momento vero e proprio della caduta di Bisanzio. In questo momento si può rileggere il rivali della prima raccolta la riviera del sangue. Quello del poeta è un viaggio che, proprio perché ripugna la disperazione, guarda oltre, verso la speranza inaspettata: «Un plotone superstite esaminò / Le pietre della città combusta / Si leggeva delle fondazioni, /il reticolo d’una città romana, / la cattedrale caduta per catapulte //Si fermarono alle /arche stupiti / Da tre lapidi in gradazione. // L’epigrafe era salvata, / annerita dalla furia rovinosa: / tre neonati vissuti un giorno.// Riportava passi delle scritture, /un versetto per ogni stele // Il Signore ha dato. / Il signore ha tolto. / Sia benedetto ora e sempre il nome del Signore.

Voleva valicare la calce,/ l’orizzonte informe dei Goti.// Fondare la città/ Dai cento cerchi di mura,/ dai terrazzi con i colori delle stelle,/ rivestire la varietà dei sogni,/ e l’architettura dei desideri.// Ai deserti seguiva l’acqua,/ una capitale emersa sui laghi/ e donne slanciate nella seta.// Ecbatana, Persepoli,/ Timbuctù, Ianua/ o Atlantis,/la luminosa.

(Articolo già pubblicato in www.cogitoetvolo.it )

Sulla Creatività

Rimandiamo al blog di Luisa Carranda per alcune considerazioni riguardo la creatività. Sembra utile considerare l’arte ancorata alla tecnica. Rifuggiamo dall’idea dell’artista come genio invasato e consideriamo quanto sia importante l’esercizio e la ripetizione per raggiungere l’originalità: per dirla con Catullo Labor limae.

La Creatività

Sul Classico

Il termine “classico” deriva dal latino classicus che indicava nella Roma antica coloro che, in base a una divisione per censo, appartenevano alla prima classe di cittadini: era “classico” chi apparteneva a quella che era considerata la classe per eccellenza. Sin dal suo primo utilizzo il termine è impiegato per designare modelli considerati “di prima classe”. Nell’antichità il termine viene ricorre la prima volta in Aulo Gellio (II sec. d.C.) con riferimento alla produzione augustea considerata esemplare, ma per questo sarebbe ingenuo considerare tale produzione come primo classico dell’umanità, infatti tale concetto ha assunto col tempo un significato di estensione sempre più vasta.

Proprio per la sua caratteristica di modello il classico non si può rileggere.
«C’è una priorità nel tempo. La poesia precede il commento. La composizione precede la decostruzione. La temporalità è una categoria metafisicamente ed esistenzialmente resistene; ma è stata fortemente relativizzata nella visione del mondo proposta dalla scienza moderna. Il tempo può essere piegato e ridotto alla contingenza e all’accidente. Ci sono stati casi, benché rari e sospetti per la loro artificialità, in cui un quadro, un testo letterario, un componimento musicale, sono stati realizzati con l’intenzione calcolata di rispondere a una qualche attesa teorica, critica, programmatica.»
GORGE STEINER, Vere presenze, Garzanti Milano 1999. p. 146

Antonio Canova

Volendo considerare la situazione culturale tra ’700 e ’800 è necessario prendere in cosiderazione un movimento storico-artistico variegato: il neoclassicismo. Punto di riferimento per comprenderne il significato globale è l’artista Antonio Canova. In un periodo in cui l’europa ha vissuto grandi cambiamenti come la novità e immediatamente la delusione della rivoluzione francese la nascita artistica i un gusto moderno…
Gli inzi veneti

Il senatore Giovanni Falier fu il primo a riconoscere la grandezza di quel genio che sarebbe poi diventato il principale scultore neoclassico. Si interessò personalmente del futuro del giovane artista avviandolo allo studio e ad una idonea formazione professionale. Rimane leggendario l’episodio in cui si narra del piccolo Antonio Canova che, verso i sei o sette anni di età, durante una raffinata cena tra nobili personalità veneziane nella villa di Asolo del senatore, suscitò enorme meraviglia fra gli invitati incidendo nel burro in breve tempo ma già con grande maestria e bravura la figura di un leone. Canova infatti era rimasto orfano di padre all’età di tre anni e aveva vissuto col nonno Pasino, capomastro muratore alle dipendenze del senatore Falier, mentre la madre passata a seconde nozze si era trasferita a Cresapano.
Da ragazzo venne introdotto nella bottega dello scultore Giuseppe Bernardi dove dedicava buona parte del suo tempo a meditare e a disegnare nella collezione delle più famose statue antiche che Filippo Farsetti aveva radunato nel suo palazzo sulla Riva Carbon. Nel 1773, all’età di sedici anni e dopo la morte del Bernardi lasciò la bottega per dedicarsi alla realizazione di Orfeo e Euridice commissionatagli dal senatore Falier.
Periodo romano

Nel 1778 aprì uno studio a Venezia e l’anno successivo dopo il consenso suscitato dal gruppo Dedalo e Icaro, si recò a Roma. Lì le correnti del classicismo rinascente avevano trovato impulso da quando nel 1772 Clemente XIV aveva fondato il Museo di antichità. Nella città pontificia realizzò nel 1781 il Teseo sul Minotauro e il monumento di Clemente XIV che gli diedero subito tanta notorietà che il principe Giovanni Abbondio Rezzonico e i suoi fratelli cardinali Carlo e Giovanni Battista gli ordinarono il sepolcro dello zio pontefice Clemente XII in S. Pietro. Nonostante il grande successo Canova in una lettera a Marco Martinelli ne 1787 spiega di non essere ancora pronto “veggo sempre più che ho gran spazio da percorrere”. Durante la realizzazione del monumento la pressione del trapano sullo sterno portò a deformare l’osso comprimendo lo stomaco e alterandone la funzione.
Nel 1792 lavorò al monumento dell’ammiraglio Angelo Emo da collocarsi in Palazzo ducale, al gruppo di Adone e Venere (che finì nel 1820) e il gruppo di Amore e Psiche (1793) ordinatogli dal Generale Murat e replicato nel 1800 per l’imperatrice Giuseppina.

In quegli anni conobbe anche Domenica Volpato, figlia dell’incisore Giovanni, con la quale ebbe un’amicizia travagliata. Canova amò la giovinezza, ma non conobbe l’amore. Fu quasi cieco dinnanzi alla donna. La osservò e la studiò come pochi nella sua bellezza esteriore e formale, ma raramente ne penetrò la vita, perché gli elementi di essa non furono connessi a una visione totale. La sua fama cresceva in Italia e all’estero: riceveva sempre nuove e impegnative commissioni da ogni parte d’Europa. La sua arte, organizzata secondo la tecnica degli antichi greci, dal disegno all’argilla, dal gesso al marmo, sviluppò un lavoro formidabile e una vicinanza sempre più forte ai temi della mitologia classica. Scrisse all’amico Cesarotti “lavoro tutto il giorno come una bestia ma è vero altresì che quasi tutto il giorno ascolto a leggere i tomi sopra Omero”.

Periodo internazionale

Si moltiplicavano le commissioni tra le quali l’Ercole e Licia quando nel 1798 i Francesi occuparono Roma ed egli preferì abbandonare per alcuni anni la città alloggiando in Veneto.
Nel 1802 venne chiamato a Parigi da Napoleone per eseguirne il busto. Nelle sue opere napoleoniche non v’è ombra di oratoria. Anche se Napoleone poteva essere l’Alessandro Magno moderno, Canova non serve altro ideale che quello dell’arte sia che lavori per Napoleone o per il Papa o per l’imperatore d’Austria. Lo stesso anno lavorò al Monumento di Maria Cristina, modellò la tomba di Alfieri per Santa Croce a Firenze.
Portò avanti i suoi lavori a Parigi, Vienna, Napoli dove Giuseppe Bonaparte gli commette la statua equestre di Napoleone (1806). Lavorò nei diversi studi al Napoleone nudo come al ritratto di Paolina Bonaparte Borghese in aspetto di Venere vincitrice che nel 1810 gli venne commissionato a Parigi.

Il prestigio europeo di cui aveva goduto gli permise, anche dopo la caduta di Napoleone, di trattare ed ottenere la restituzione delle opere d’arte che i Francesi avevano portato via dall’Italia. Andò poi a Londra per ringraziare il principe reggente a nome del papa e così vedere i marmi del Partenone raccolti in Grecia da Lord Elgin. Fu l’ultimo viaggio importante.
Gli ultimi anni li trascorse a Roma lavorando alle Tre Grazie, alla Musa Polimnia e al Teseo che uccide il Minotauro, al monumento degli Stuardi in S. Pietro, al busto della vestale e di Saffo, alle statue di George Washington e di Pio VI orante e al monumento equestre di Carlo III di Borbone. Il 13 settembre 1822, stanco e sofferente, partì da Roma e si recò a Possagno. Migliorò e volle tornare a Roma, ma, sfinito, dovette fermarsi a Venezia, dove morì.

Lavoro “Bellezza e verità”

Talvolta può essere utile trarre spunto dalla poesia, indimenticabile il livello di quella del primo ‘800 inglese, così la mente va subito a uno dei suoi più noti rappresentanti: John Keats, che seppe fondere la malinconica ispirazione romantica con un sentimento appassionato della bellezza e della vita impregnato da un profondo spirito neoclassico. Tra i versi più famosi possiamo ricordare:
“Bellezza è verità, verità bellezza” – questo solo
sulla terra sapete, ed è quanto basta.
[Ode su un urna greca]
Versi come questi potrebbero ritornarci alla memoria per il loro fascino, forse sin dai banchi di scuola ci sono rimasti impressi per il loro ritmo, il suono risulta gradevole e la melodia armoniosa, tuttavia mi auguro comunque che queste frasi si focalizzino nelle nostre menti per la verità che comunicano. Ciò che è bello è vero, quindi allo stesso modo ciò che è vero è bello. Non sempre abbiamo un’esperienza così diretta della verità attraverso la bellezza. Nel componimento la sentenza, si noti come l’espressione sia in discorso diretto, è espressa dall’urna. L’Ode di Keats è rivolta ad un’anonima opera d’arte greca, un’urna, e in questa vengono messe in evidenza gli aspetti di universalità e immortalità dell’arte, in particolare di quella specifica opera che nella conclusione si rivolge in prima persona al poeta stesso. L’urna prende vita rivelandosi nella sua essenza al poeta contemplante… “Bellezza è verità…“. L’immaginazione poetica è in grado di far parlare un manufatto, sembra quasi che quell’opera d’arte sia rimasta in silenzio, per tutta la durata dell’ode, ad ascoltare la voce del poeta e rivelarsi soltanto sul finale. L’effetto è gradevole, quasi un colpo di scena.

Poiché la poesia serve a trarre spunto per riflettere sulla vita concreta, possiamo provare a immaginare che la stessa situazione possa accadere anche a noi nella nostra vita; che a parlare sia quello che abbiamo tra le mani. Forse non avremo mai una sensibilità pari a quella del poeta inglese da essere in grado si comporre un ode su ciò che abbiamo tra le mani, nonostante tutto possiamo provare a immaginare che le nostre occupazioni giorno per giorno, dopo averci ascoltato, osservato e capito, si rivolgano a noi. Anche il nostro lavoro può parlare sia agli altri di noi stessi, che a noi su noi stessi. Il nostro lavoro parla di noi agli altri sempre: a volte comunica in maniera dirompente, quando raggiungiamo obbiettivi ardui e meritori, è il momento in cui tutti parlano di noi e magari riceviamo diversi complimenti; altre volte, la maggior parte delle volte, sono i nostri gesti spontanei che assumiamo nel lavoro quotidiano che parlano di noi (il sorriso, il modo di rispondere, l’abbigliamento). Il lavoro parla a noi su noi stessi: quando attraverso ciò di cui ci occupiamo scopriamo sempre meglio il nostro modo di essere, il nostro carattere con i suoi punti di forza e punti di debolezza. Ma queste osservazioni sono di tutti giorni, come un dialogo continuo tra il nostro lavoro e noi stessi; sono come un continuo riecheggio di sottofondo.

Cosa potrebbe dire il nostro lavoro se potesse rivolgersi a noi in prima persona con il massimo della schiettezza e della semplicità? Se la nostra attività personificata potesse ergersi per rivelarci la sua essenza e di conseguenza rivelare a noi l’essenza del nostro lavoro? cosa direbbe? Come potremmo immaginarci l’equivalente della sentenza emessa dall’urna greca se al posto dell’urna ci fosse il nostro lavoro? Qual è l’essenza di ogni lavoro se non quella del servizio? Così parafrasando Keats coe sfida possiamo immaginarci:
“servizio è il lavoro, lavoro servizio” questo solo
sulla terra sapete, ed è quanto basta
Potrebbe anche risuonare un’espressione forte ma il centro della questione è proprio il saper vedere il nostro lavoro come attività di servizio. Così allora migliorando il servizio miglioreremo il lavoro come allo stesso modo migliorando il lavoro miglioreremo il servizio. Le categorie morali e le categorie professionali si vengono ad identificare. Il mondo personale, guidato dalle sue leggi, si fonde con il mondo dell’economia guidato da altre leggi. Effettivamente su un piano professionale-economico ogni azienda produce un servizio come affermava Gino Zappa, padre del pensiero economico aziendale; per cui possiamo osservare come esso valga allo stesso tempo anche a livello individuale. Indipendentemente che il nostro sia un impiego pubblico o privato, rivolto o non rivolto ad un vasto uditorio, noto o sconosciuto ai più, in quanto lavoro è servizio; e sebbene ricopra la nostra sfera personale può intersecarsi con principi economici apparentemente impersonali. Le leggi dell’economia possono sembrare imposizioni fredde e regole sterili che invece vanno calate a livello personale in modo da viverle nel contesto quotidiano. Sarà indispensabile imparare a guardare il nostro lavoro con un ottica più “aziendale” in cui ogni individuo non è soltanto dipendente ma anche imprenditore in relazione a ciò che gli spetta. Soltanto riscoprendo l’importanza delle diverse individualità potremo recuperare la passione per il nostro lavoro, avere quella creatività che ci porterà innamorarci nuovamente di ciò che abbiamo tra le mani per recitare insieme a Keats:
Sì, le melodie ascoltate sono dolci, ma più dolci
ancora son quelle inascoltate.
Nella vita migliorare se stessi, chi ci sta accanto, e ciò che si ha tra le mani è sempre possibile. Questo mi ha insegnato la poesia.